Ciao Galsi. Ecco come la Sardegna resta fuori dalla geopolitica energetica

Il gasdotto Galsi è pronto al passo d’addio. Il progetto resta sulla carta e ogni giorno si assottigliano le possibilità che si realizzi il sogno della metanizzazione della Sardegna. La decisione ufficiale della Sonatrach sulla realizzazione del gasdotto Galsi è attesa per giovedì prossimo, data in cui è stato fissato il consiglio di amministrazione, ma la notizia di un ulteriore slittamento del progetto, destinato all’importazione di gas naturale dall’Algeria verso l’Italia attraverso la Sardegna, è emersa nella tarda serata di lunedì durante l’assemblea dei soci svoltasi a Milano.

Abdelhamid Zerguine, amministratore delegato dell’azienda pubblica degli idrocarburi algerina, aveva anticipato al quotidiano “Al Watan” le intenzioni della compagnia: «La decisione sugli investimenti da destinare al progetto di gasdotto Galsi sarà sicuramente rinviata all’anno prossimo. Il progetto non ha alcun ritorno economico, non è definitivamente accantonato, ma il termine per la sua attuazione sarà ritardato». Parole in fondo diplomatiche, visto che nelle segrete stanze del governo algerino si valuta la possibilità di chiudere le carte dentro i cassetti. Addio al metanodotto in Sardegna?

Il sogno metanifero si spegne davanti ai dubbi economici

L’ulteriore rinvio di un progetto “privo di ritorno economico” potrebbe essere, con molta probabilità, la prova di un accantonamento definitivo, con buona pace di chi puntava sulla sua realizzazione, prima tra tutti la società Galsi sostenuta da Edison, Enel, Gruppo Hera e dalla Regione Sardegna attraverso la finanziaria Sfirs, che ha acquistato l’11,51% delle azioni di Galsi S.p.A. Il trend economico che ferma i consumi, frenando la necessità italiana di importare gas in quantità ingenti, sembra far sfiorire il business plan degli azionisti, tenendo presente che Galsi è il primo grande progetto metanifero dove non sia presente l’Eni, una potenza mondiale e una garanzia di successo per la stessa Sonatrach, scoraggiata e delusa per la corsia preferenziale che l’esecutivo Berlusconi aveva riservato alle piste metanifere alternative che arrivano da est e che hanno spesso fatto capo agli interessi della Russia “dell’amico Putin”: i progetti Nabucco e South Stream, che anch’essi, tuttavia, non sembrano accelerare in maniera significativa. Sta di fatto che la compagnia di Stato energetica algerina, dopo il rinvio dello scorso novembre, nel cda del 30 maggio confermerà un rinvio di un anno “per ragioni tecniche” che assomiglia tanto a una chiusura anticipata del progetto.

Sardegna unica regione italiana senza metano

Mentre il problema del gap energetico che stritola la competitività dell’Italia a livello europeo e mondiale resta in cima all’agenda del governo Letta, la Regione sembra dormire sonni tranquilli nonostante di fronte abbia i cadaveri di aziende pubbliche e private, piccole e medie, locali e multinazionali. Esistono alternative al progetto Galsi? La prima potrebbe essere un grande impianto di rigassificazione del metano liquefatto (Gnl) trasportato con navi, magari finanziato dagli stessi azionisti del Galsi, che potrebbe sfruttare alcuni elementi progettuali e reti infrastrutturali pensati per il gasdotto italo-algerino, sia nella rete di distribuzione interna che nelle condutture che dovrebbero attraversare l’Isola per creare un bacino di scambio del gas con il continente. D’altronde le alternative scarseggiano e i progetti di potenziamento della produzione elettrica nell’Isola sono fermi al palo. Parliamo dell’idea della conversione a “carbone pulito” delle centrali a olio combustibile di Fiumesanto (E. On) e Ottana (Ottana Energia del gruppo Clivati): quest’ultima avrebbe dovuto sviluppare il progetto di “turbogas” proprio con l’eventuale metanizzazione della Sardegna.

Energia ad alto costo tra “Nimby” e le alternative mondiali, dal fracking alla nuova Tap

Partiamo da un dato oggettivo: secondo il rapporto della Cgil sarda del 15 luglio 2011 sul costo dell’energia nell’Isola, in Sardegna nel 2010 il prezzo del Mwh è stato del 15% superiore alla media nazionale. Se pensiamo che secondo i dati forniti lo scorso anno da Confartigianato, le imprese italiane pagano l’energia il 35,6% in più che nel resto d’Europa, possiamo capire cosa significhi per l’Isola il gap energetico. Tradotto in denaro, a livello nazionale, si tratta di un maggiore costo di 10.077 milioni di euro l’anno, equivalenti a circa due terzi di punto (0,63%) di PIL. Per ciascuna azienda italiana, significa un esborso di 2.259 euro in più all’anno rispetto ai competitor europei. E in Sardegna va peggio. Così non si giustificano la fuga dell’Alcoa, la ritirata dell’E. On o la crisi del gruppo Clivati, ma gli si dà certamente un motivo in più per abbandonare l’Isola. Mentre la crisi industriale trova la sua ragion d’essere anche in questa tassa fantasma che pagano le aziende in Sardegna, i Nimby (Not in my back yard), le folte schiere dei contrari alle opere sul territorio funzionali al gasdotto, hanno messo i bastoni tra le ruote agli investimenti su un futuro di metanizzazione dell’Isola: dalle proteste di piazza contro la stazione di compressione di Olbia, fino alle contestate esplorazioni della Saras per cercare il gas naturale nel sottosuolo di Arborea. Chi ha ragione? Il metano è davvero un investimento profittevole solo per i “padroni del vapore” e senza ricadute dirette e positive per i cittadini e le imprese? Forse non lo sapremo mai. Intanto il fracking e la Tap allontanano gli investimenti dal metano dell’Algeria.

Il Fracking

La tecnica del fracking, o frantumazione idraulica, consiste nella frantumazione di rocce calcaree condotta in presenza di elevate quantità di acqua al fine di estrarne il cosiddetto “shale gas”, gas metano che potrebbe rappresentare la risorsa in grado di soddisfare il fabbisogno energetico mondiale nei prossimi anni. Chiaro che rappresenterebbe una svolta epocale: renderebbe meno influenti i Paesi arabi sullo scenario politico mondiale, dal momento che libererebbe gli Stati Uniti e l’Europa dalla dipendenza dal petrolio. Lancerebbe in orbita Cina e Usa, che sono i Paesi che vantano maggiori giacimenti di roccia dai quali estrarre lo shale gas. La geopolitica cambia e le direttrici metanifere rischiano di vedere depotenziato il loro ruolo mondiale: il gasdotto Galsi a questo punto non servirebbe più.

La Tap (Trans Adriatic Pipeline)

Il Gasdotto Trans-Adriatico (conosciuto con l’acronimo inglese di TAP, Trans-Adriatic Pipeline) è un progetto per la costruzione di un nuovo gasdotto che connetterà Italia e Grecia via Albania, permettendo l’afflusso di gas naturale proveniente dalla zona del Caucaso, del Mar Caspio e, potenzialmente, del Medio Oriente È un progetto sviluppato congiuntamente dalla svizzera EGL e dalla norvegese Statoil. Il gasdotto partirà in territorio greco, sarà lungo 800 km circa, di cui 115 km offshore nel mar Adriatico. L’altezza massima raggiunta sarà di circa 1.800 metri sulle catene montuose dell’Albania; la profondità massima sarà di circa 820 metri. Sono previste 3 stazioni di compressione lungo il percorso. È allo studio, inoltre, la costruzione di un deposito di stoccaggio in una caverna salina in territorio albanese, al fine di bilanciare l’offerta di gas diretta in Italia ed Europa. Un progetto infrastrutturale che coinvolge anche la Turchia, potenza regionale emergente che si candida a vera potenza economica a cavallo tra Est ed Ovest, e che sposta l’assetto energetico in chiave geopolitica lontano dall’area che collega l’Algeria alla Sardegna con epicentro il mar Tirreno.

Abbiamo visto due esempi che confermano come il progetto Galsi corra verso la chiusura non solo per ragioni “provinciali”, ma per un gioco geopolitico di equilibri mondiali che vedono nell’energia una delle leve economiche più importanti.

Galsi e l’occhio lungo dei cinesi

Ma davvero il gasdotto Galsi rischia di rappresentare, viste le attuali condizioni di mercato, un cattivo affare? Per adesso la Sfirs, la finanziaria regionale, che nell’affare resta intrappolata con una quota conferita di 11 milioni di euro di soldi pubblici, non sembra avere le idee molto chiare. Così come la politica che la governa. Ma l’investimento, con un po’ di lungimiranza e qualche competenza in più, potrebbe non essere del tutto svanito, se consideriamo gli abboccamenti industriali messi in atto negli ultimi mesi perfino dai cinesi, che evidentemente stanno guardando all’Europa e al nostro Paese per fare buoni affari anche grazie alle condizioni negoziali che potrebbero essere propiziate dalla crisi. Già nel novembre scorso i rappresentanti di Shenzhen Energy Group e di China Environmental Energy Holdings, Gao Zi Min e Billy Ngok, avevano incontrato a Cagliari il presidente della Regione, Ugo Cappellacci, e l’allora assessore dell’Industria, Alessandra Zedda. Una prima ipotesi riguarda proprio la possibilità di realizzare degli investimenti nell’area di Fiumesanto, togliendo dall’imbarazzo anche E.On, i cui vertici hanno incontrato i possibili investitori cinesi a Dusseldorf. Ma sul futuro energetico dell’Isola, come è evidente, non v’è alcuna certezza.

Giacomo Legato

 

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