“Il razzismo ha la memoria corta”: l’antropologo Marco Aime a Cagliari

“Se in Italia studiassimo meglio la nostra storia e il nostro passato di emigrazione forse il razzismo e la xenofobia non avrebbero terreno su cui attecchire. E invece, purtroppo, tracciando confini e costruendo muri dimostriamo di avere la memoria troppo corta”. Marco Aime, considerato uno degli antropologi italiani più autorevoli e influenti, si trova a Cagliari per Marina Café Noir, il festival di letteratura che ha preso il via ieri al Giardino sotto le Mura: Aime sarà protagonista, questa sera, di “Migranti, l’altro dietro il mare” un incontro sul tema delle libertà e delle migrazioni in programma alle 19 nello spazio dei campi sportivi del Terrapieno insieme a Francesco Bachis, antropologo dell’Università di Cagliari, e Davide Cadeddu, studioso dei Cie e degli altri luoghi di detenzione per migranti.

Con lui abbiamo parlato di migrazioni, argomento che gli è particolarmente caro (nel 2016 per Einaudi ha pubblicato “Contro il razzismo, quattro ragionamenti”, nel 2015 è uscito “Senza sponda, perché l’Italia non è più una terra di accoglienza” per Utet, con la prefazione di Alessandra Ballerini) ma non solo: libertà, memoria, accoglienza, razzismi di ieri e di oggi. A cominciare proprio dalla Sardegna, terra con una lunga storia di emigrazioni nel passato e nel presente e caratterizzata da una fortissima identità.

“Da quando si è iniziato a parlare di globalizzazione – ha sottolineato Aime all’inizio dell’intervista a proposito dell’identità sarda – c’è stata una forte attenzione verso i localismi con l’obiettivo di dare dignità storica a peculiarità precise. Non sempre però queste peculiarità sono autoctone, spesso si tratta di elementi importati da fuori. È qui che gioca un ruolo fondamentale la percezione di se stessi e il racconto che si costruisce della propria storia. Come tante altre isole anche la Sardegna ha conservato alcune caratteristiche culturali in modo più sentito come la lingua, le tradizioni. Però a differenza della Sicilia, che mostra se stessa come il prodotto di scambi e incontri secolari, in Sardegna è più forte una ricostruzione che guarda all’identità e alle specificità, nonostante anche la storia sarda sia una storia di intrecci culturali diversi. Una caratteristica importante per le vicende sarde poi è stata la dominazione sabauda: da piemontese posso dire che sono stati pessimi regnanti, e l’Isola è stata pesantemente sfruttata; da qui una visione ancora diversa, influenzata da questi fatti, che ha raccontato il banditismo, fenomeno in sé negativo, come momento di resistenza alla dominazione esterna”.

La ricerca del localismo arriva dal desiderio di affermare la propria identità, ma può essere anche pericolosa. 

Certo, perché può arrivare all’esclusione: l’Italia è fatta di localismi e riconosciamo le nostre specificità anche dopo oltre 150 anni di unità politica, ma se trasformiamo la nostra identità in un recinto da cui gli altri sono tagliati fuori allora arrivano le derive nazionalistiche. Così è nato, ad esempio, il discorso della Lega prima circoscritto al Nord Italia e oggi esteso a tutto il paese, con i diritti che si vogliono limitare solo a chi è nato qui.

Nonostante una storia importante di emigrazione interna e verso l’estero oggi siamo spaventati da chi arriva qui. Abbiamo la memoria corta? 

Purtroppo si, e tenere la memoria viva sarebbe compito delle istituzioni e della scuola: se si facesse conoscere la nostra storia forse non assisteremmo a derive razziste e xenofobe. Sono vissuto a Torino, dove fino agli anni Sessanta arrivavano centinaia di migliaia di persone in cerca di un lavoro da tutta Italia perché la Fiat si stava ingrandendo. E poi c’erano Milano, e Genova che si considerava la città del Sud più a Nord dell’Italia con tantissimi immigrati. Dal Veneto, oggi tra le regioni d’Italia più ricche, fino agli anni Settanta si muovevano persone poverissime che i Torinesi con una punta di razzismo chiamavano i terroni del Nord, ed è curioso perché i veneti si sono dimenticati della loro povertà. Certo, la situazione era diversa, economicamente più favorevole di quella di adesso, ma non abbiamo mai visto l’emigrazione come un problema e tra noi coetanei non c’era questa diffidenza verso l’altro. Oggi invece esiste un certo tipo di politica che vuole alimentare le differenze usando l’identità come arma, da qui nascono i movimenti razzisti: una buona conoscenza del nostro passato sarebbe un ottimo strumento per arginare questi fenomeni.

E poi c’è chi oggi vuole separare i migranti: da una parte i profughi che meritano accoglienza, dall’altra i migranti economici che devono essere respinti. Una distinzione giustificata da esigenze di sicurezza e controllo, dicono.

Tutti i migranti sono economici, ad esclusione chiaramente di chi scappa da una guerra, e anche in Italia, a parte il periodo del fascismo, abbiamo avuto solo migranti economici. Le cause della povertà sono tantissime, anche politiche: tutti hanno l’aspirazione di migliorare la propria condizione, che sia nel proprio paese o altrove. Un recente rapporto Caritas ‘Migranti’ ci conferma che gli italiani che vanno all’estero sono più degli stranieri che vengono qui. Il problema della sicurezza e del terrorismo non ha nulla a che fare con l’emigrazione, lo dimostra il fatto che gli attentati in Europa sono stati compiuti da persone nate e cresciute qua che non si sono integrate e hanno sempre vissuto ai margini. Nessuno è arrivato da fuori. E poi i terroristi, che dispongono di risorse enormi, non rischierebbero certo la vita su barconi per arrivare qui.

Nel suo libro “Senza sponda, perché l’Italia non è più una terra di accoglienza”, c’è citato un esempio che ci tocca da vicino: dieci anni fa un tribunale tedesco ha concesso a un giovane sardo accusato di violenza contro la sua ex fidanzata le attenuanti per le sue origini etniche.

È un tipico caso di etnicizzazione del crimine, con l’attribuzione di una tendenza criminale attribuita a un determinato popolo. Non conosco la storia personale di quel giudice e perché sia arrivato a emettere una sentenza simile, ma sono convinto che i media abbiano una grande responsabilità nell’attribuire generici reati allo straniero. Solo che in quel caso lo straniero eravamo noi. A tracciare sempre i confini può accadere di finire dall’altra parte.

Francesca Mulas

 

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