Montaldo: “La crisi del cinema? Sono 64 anni che faccio precariato d’autore”

L’opera filmica di Giuliano Montaldo è tra le più importanti del cinema italiano del dopoguerra. Ma il regista di “Sacco e Vanzetti” è anche un uomo straordinario, a cui fa difetto la presunzione, è disponibile, un gentleman d’altri tempi, colto e spiritoso, che non teme di mostrarsi divertito o commosso. I suoi film hanno vinto la battaglia col tempo: rimane, infatti, intatta la bellezza e la profondità con cui sono nati.

Ancor oggi, gli spettatori si incantano per le ombre ambigue colorate da Vittorio Storaro in “Giordano Bruno” (1974), dove è difficile dimenticare anche le labbra strette di Gian Maria Volontè che, interpretando il filosofo di Nola, sussurra agli Inquisitori “Avete paura voi!”. Oppure il commovente grido (“Viva l’anarchia”) di Vanzetti-Volontè, martire dell’intolleranza, poco prima di essere ucciso in “Sacco e Vanzetti” (1971). E poi, l’incanto della Città proibita di Pechino attraversata dal Marco Polo giovane nell’omonimo serial di grande successo degli anni Ottanta fino ai fotogrammi del suo ultimo film, “L’industriale”(2012), che tanto ci racconta sulla contemporaneità.
Nonostante questa carriera così esemplare, Giuliano Montaldo, ospite prestigioso delle due giornate cagliaritane delle “Isole del Cinema” , afferma di aver trascorso “ quasi 64 anni di precariato d’autore. Perché in Italia non è solo in questo periodo che è complesso realizzare film di un certo tipo”. “Ho spesso fatto fatica a convincere i produttori a finanziare i miei lavori. Per esempio, quelli di ‘Sacco e Vanzetti’, che non riuscivano a immaginare una storia ambientata anche scenograficamente negli anni Venti negli Usa. Infatti, cosa era rimasto urbanisticamente di quel periodo negli Stati Uniti? Quasi nulla, sembrava impossibile ricostruire quel mondo. E’ stato faticoso, portare avanti il progetto, anche se poi è andato tutto per il meglio: un grande successo di pubblico e critica. Ma pure per il recente ‘L’industriale’ non è stata facile la produzione, dunque, il mio rimane un lavoro ‘precario’, sempre sul filo del rasoio”.
Nonostante queste problematiche, i suoi film, sia nei contenuti sia nella forma, non sono assolutamente datati, sono sempre profondamente attuali.
“Sicuramente nelle mie opere ho trattato temi a cui tenevo molto. Penso a ‘Gli occhiali d’oro’ dove è presente la mia passione e la mia rabbia nei confronti dell’intolleranza, uno dei peggiori mali che può contaminare l’umanità, la madre di tutte le tragedie. Stesso argomento si trova in ‘Gott mit uns’ e in ‘Sacco e Vanzetti’. In ‘L’Agnese va a morire’, invece, c’è il racconto della Resistenza dal punto di vista di una donna, la prima volta che il cinema italiano raccontava ampiamente questa valenza della Lotta di Liberazione”.
Le sue opere sono sostenute anche da rilevanti prove degli interpreti. Quando scrive un film, ha già in mente una drammaturgia per l’attore?
“In effetti ho lavorato con grandissimi interpreti, da Lancaster a Cassavetes, da Cucciolla a Noiret, Rupert Everett o Ingrid Thulin, una donna straordinaria, la quale per l’ ‘Agnese’ si è prestata quasi gratuitamente e, con la sua presenza, ha coinvolto nel progetto anche altre attori, che la amavano molto, alcuni, allora, ancora molto giovani come Flavio Bucci, Michele Placido. Ma nel mio cuore rimane Gian Maria Volontè, forse perché abbiamo cominciato insieme. La prima volta che ho dato un ciak (dirigevo la seconda unità di un film del mio carissimo amico Carlo Lizzani, purtroppo scomparso di recente), lui era presente sul set. Io avevo ventiquattro anni e un giorno Lizzani, che mi aveva scelto pure come attore per quella pellicola, si sentì male e mi chiese di girare delle scene, dove era presente questo giovane, già caratterizzato da un suo tono interpretativo particolare, con il quale riuscì quasi a litigare. Poi ci siamo presentati e, così, è iniziata una lunga conoscenza e amicizia”.
Volontè è stato un suo attore di riferimento. Come lo potrebbe descrivere dal punto di vista professionale?
“La sua grande personalità, il suo carattere lo hanno fatto diventare uno straordinario attore. Non so quale fosse il suo segreto, entrava sicuramente nel personaggio  in maniera totale: di giorno, di notte, nelle pause; a volte, proprio per questo, si isolava dalla troupe, stava in camerino. Trascorreva delle notti nell’inquietudine rispetto a ciò che doveva girare il giorno dopo, trasformandosi anche fisicamente. Ricordo bene una volta, durante la notte, in cui sembrava persino dimagrito di qualche chilo! Gian Maria scriveva ripetutamente le scene che doveva recitare, trascriveva le battute in un quaderno, le segnava con tratti blu, rossi, alla fine, quei fogli prendevano l’aspetto di una sorta di partitura musicale. Non ricordo di aver mai dato uno stop perché avesse sbagliato qualcosa, lo facevo esclusivamente per motivi tecnici. Così come trasferiva sui suoi compagni di set, gli umori dei personaggi. Evidente fu così anche in ‘Sacco e Vanzetti’, dove, durante la lavorazione, si occupava con affetto di Cucciolla-Sacco, ricordando come il vero personaggio storico fosse più tormentato di Vanzetti, perché aveva la responsabilità di una famiglia. Volontè si preoccupò di lui (Hai freddo? Ti porto un caffè?) per tutta la durata delle riprese. In un caso contrario, in ‘Porte aperte’ di Amelio fu aggressivo e ostile con un suo caro amico attore, perché quest’ultimo recitava nel film il suo antagonista… Ma Volontè era anche un amico, che ha lasciato un grande vuoto, come il mio maestro Lizzani…”.

Elisabetta Randaccio

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