L’INTERVISTA. Ecco ‘Senza lasciare traccia’, primo lungometraggio di Gianclaudio Cappai

È stato un esordio, nel lungometraggio, di ottima qualità con “Senza lasciare traccia”, per Gianclaudio Cappai, regista nato e cresciuto in Sardegna, formatosi alla Scuola di Cinema dell’Aquila e con alle spalle già due successi con film di breve e media durata. Infatti, il cortometraggio “Purché lo senta sepolto” ha raccolto riconoscimenti e ottime critiche nei festival nazionali ed esteri, mentre il mediometraggio “So che c’è un uomo” è stato premiato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2007. “Senza lasciare traccia”, in queste settimane è distribuito nelle sale di tutta Italia, dopo essere stato proiettato anche in Sardegna e rimane una bella sorpresa nell’odierno panorama del cinema italiano. Si tratta di un film tecnicamente raffinato con un accurata attenzione per il colore, quasi di matrice pittorica, e per la sceneggiatura, che può evocare il thriller psicologico. Fascinoso, intrigante sembra il primo tassello di una carriera importante. Ne parliamo con l’autore, legato alla sua terra, ma proiettato in una dimensione artistica non necessariamente localistica.

Come è iniziata la tua passione per il cinema?

Avevo un grande amore per la scrittura, ma, in seguito, quando ho avuto la consapevolezza che avrei potuto applicare questo mio desiderio anche alle immagini, ho capito come quella sarebbe stata la strada giusta per esprimermi, una mediazione creativa soddisfacente. In questo senso, l’incontro fondamentale è stato quello con Vittorio Storaro, a Roma. In quell’occasione mi disse di aver fondato, recentemente, un’accademia di cinema all’Aquila, a numero chiuso; ho deciso, ho chiesto di iscrivermi e sono riuscito ad entrare. Da quel momento, ho iniziato a prendere sul serio il lavoro del cinema, prima era soprattutto una grande passione, poi è diventato un’urgenza.

La scuola di cinema dell’Aquila, nata sotto il segno del grande direttore della fotografia Vittorio Storaro, ha influenzato il tuo interesse per la costruzione coloristica così attenta delle immagini dei tuoi film?

Non esattamente, visto che Storaro, pur famosissimo, era uno dei vari docenti della scuola, dove, con una importante full immersion durata tre anni, si approfondivano tutti i mestieri del cinema. In quel periodo di studio ho capito finalmente quale era la mia strada. Storaro nelle sue lezioni ci parlava non solo di fotografia, ma anche di religione, di storia, delle sue esperienze di vita e di lavoro, facendoci riflettere su quanto qualsiasi tipo di arte debba essere fondata su un’ampia cultura. Una volta ci disse come non sia tanto rilevante quanti libri avessimo letto, ma il trasporto e la passione con cui avevamo desiderato leggere. Inoltre, conoscere la sua ‘gavetta’ lavorativa, diventava un riferimento e uno stimolo.

Le prime esperienze cinematografiche con la realizzazione di cortometraggi, peraltro, di successo, è stata una scelta estetica o una necessità produttiva?

Prima della frequentazione della scuola di cinema dell’Aquila, ma pure durante gli studi e subito dopo, ho realizzato vari cortometraggi. Certo, l’apprendistato sulla breve durata é una sorta di tappa obbligatoria, ma avevo deciso di girare in pellicola un film ‘piccolo’, ma pensato come un progetto importante. Inoltre, mi volevo confrontare con la pellicola, con un modo di lavorare completamente diverso da quello sperimentato precedentemente. A quel punto mi si é aperto un mondo affascinante, é stata una folgorazione. “Purché lo senta sepolto” non rispetta esattamente le regole della brevitá, é una sorta di ‘lungometraggio’ in 20 minuti. Sono legato a quel corto, che ha ottenuto molti premi e mi ha permesso di realizzare il mio secondo film, il mediometraqggio “So che c’è un uomo”.

Qual è stata la genesi di “Senza lasciare traccia”?

L’idea si è formata intorno ad alcune riflessioni. La prima è scaturita da una esperienza raccontata da un’amica, che associava una malattia del presente, una forma di cancro, psicosomaticamente a un episodio traumatico del passato, un segreto infantile. Su questa confidenza ho innescato una serie di mie ossessioni, come quelle delle fornaci, per esempio. L’interesse, insomma, si è concentrato su come una persona percepisca la propria malattia, come la relazioni con angosce pregresse; d’altronde, il protagonista di “Senza lasciare traccia” ha necessità di fare i conti col passato.

È indubbio che il film sia percorso da un’interpretazione psicoanalitica delle azioni dei personaggi…

L’iter psicologico del protagonista va avanti, senz’altro, in maniera particolare, effettivamente non pensa a una vendetta mirata, ha la necessitá di rivivere quello che per lui è un rito negativo del passato e lo vuole rievocare al presente, perchè soltanto facendo questo spera di arrivare a una sorta di catarsi. Il tormento e la malattia del protagonista sono giocati a livello metaforico, come quando sente il suo male simile a un intruso, il tumore viene percepito come corpo estraneo, appunto un ‘intruso’ che si è insinuato dentro di lui.

Sei consapevole che il tuo film, così affascinante, sia uno scarto alla norma delle omologate produzioni cinematografiche italiane contemporanee?

Credo di aver avuto la coscienza, mentre giravo, che mi stavo mettendo, sia tecnicamente sia stilisticamente, su dei binari narrativi poco percorsi dal nostro cinema. In realtà, cerco sempre di seguire i progetti che mi piacciono e mi convince una narrazione dilatata, quasi che, come regista, avessi un occhio simile a quello di un entomologo teso a studiare gli insetti per come si comportano, ma prima li deve mettere in una situazione in cui aspettarsi come si muoveranno. Il mio film è stato definito thriller d’atmosfera, thriller dell’anima, cancer noir; a me interessava la reazione emotiva provocata dalla malattia su una persona che perde, angosciata, la sua lucidità. Non si tratta di un film di genere tout court, per quanto abbia degli elementi di quella tipologia cinematografica. Sicuramente mi sembra come, tra i miei lavori, sia quello più leggibile, per certi versi, più semplice.

Come si sono confrontati gli attori con la materia del film?

In un progetto di cinema indipendente gli attori hanno un margine di sperimentazione maggiore rispetto ad altro tipo di film; è come se permettessi a dei bambini di giocare diversamente. I quattro interpreti principali avevano un approccio differente alla storia; io mi sono limitato a coordinarli, affinché rimanessero nei limiti della struttura narrativa. Sono veramente contento di aver potuto lavorare con quel cast così professionale e rilevante comprendente Michele Riondino, Valentina Cervi, Vitaliano Trevisan. Sono felice di quanto si siano entusiasmati al progetto. D’altronde, per questo genere di film, gli attori regalano quel quid, quella magia, per cui esistono gli interpreti convincenti al cinema.

Elisabetta Randaccio

 

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