L’INTERVISTA. Arlorio, padre del premio Solinas: “Serve un’ambizione smisurata”

Scrivere è un lavoro che si impara attraverso il suo continuo esercizio. È una questione di pratica. Per questo quando si chiede a Giorgio Arlorio come gli piacerebbe essere definito, lui risponde: “Sono un ragazzo di bottega, ma di novant’anni”. L’età anagrafica va da una parte, la sua energia contagiosa, da un’altra. Perché alla classica domanda: “Posso intervistarla, le rubo una decina di minuti”, ne regala più del doppio. “Sono un chiacchierone”, ribatte sorridendo. Sceneggiatore tra i più grandi del cinema italiano, amico fraterno di Franco Solinas, è uno degli ultimi che hanno veramente vissuto la grande stagione del cinema italiano, quello di Age, Scarpelli, Zavattini, Cecchi D’Amico e, ovviamente, Solinas. Portano la sua firma due film di Gillo Pontecorvo: il mitico “Queimada” con Marlon Brando e “Ogro” con Gian Maria Volonté, realizzati a quattro mani proprio con Franco Solinas. Ma non solo, suoi sono anche “Cento giorni a Palermo” di Giuseppe Ferrara, “Zorro” di Duccio Tessari, “Il padre di famiglia” di Nanni Loy. Sardinia Post lo ha incontrato in occasione della nuova edizione del Premio Solinas – qui i vincitori – all’interno del ‘Cantiere delle storie’ a La Maddalena, kermesse che, insieme a tanti altri, ha tenuto a battesimo sin dal 1985, anno in cui fu annunciata. Nel corso del tempo ha visto passare gli script che avrebbero poi lanciato la carriera a tanti autori del cinema italiano contemporaneo: Francesco Abate, Francesca Archibugi, Mimmo Calopresti, Massimo De Angelis, Salvatore De Mola, Fabio Grassadonia, Alessandro Piva, Paolo Sorrentino. Il 2017 segna oltretutto il ritorno della manifestazione sull’isola dopo un lungo periodo che l’ha vista peregrinare lungo tutta Italia. Un tornare a casa che suona come un nuovo inizio.

LE FOTO STORICHE

 

Immagino che sia felice che il ‘Solinas’ sia di nuovo a La Maddalena.

“Certo, sono felicissimo. Il premio per le sceneggiature inedite è nato proprio qui e non certo per pura casualità, Franco (Solinas ndr.) ha sempre avuto un amore speciale per questi luoghi, ed è bello rivedere qui tanti giovani che si confrontano tra loro, imparano e hanno un dialogo costruttivo. Qui si respira un’atmosfera unica che non si può ritrovare altrove”.

Quest’atmosfera e questa sensazione di trovarsi a vivere una esperienza così forte è stata anche rimarcata ieri, quando si è citato Paolo Sorrentino, il quale si era espresso perché questo premio rientrasse in Sardegna.

“Sì, e mi ha fatto molto piacere, non conoscevo questo particolare. Sorrentino è stato premiato per la sceneggiatura di quello che poi sarebbe stato il suo primo film, ‘L’uomo in più’, c’è quindi da parte sua sicuramente un affetto sincero nei confronti del ‘Solinas’. Gli deve tanto, ed è una soddisfazione poter dire che lo abbiamo scoperto noi”.

Le piacciono i suoi film?

“Molto. ‘L’uomo in più’ ci aveva colpito sin dalla scrittura, si capiva chiaramente che dietro c’era veramente uno di grande talento. Basta vedere cosa ha realizzato in seguito, penso a ‘Il Divo’. È epocale, nessuno aveva mai fatto una cosa simile in Italia, o ‘Le conseguenze dell’amore’, che è quello che amo maggiormente, mentre quello su Roma con cui ha vinto l’Oscar, ‘La grande bellezza’ non mi ha preso più di tanto e nemmeno ciò che ho visto di ‘The young pope’, ma io con i papi ho poco a che fare, sono un ateo che è cresciuto facendo le scuole con i gesuiti. Per certi versi è proprio grazie a loro che sono così. D’altronde sa, sono loro i primi ad avere applicato il comunismo, le loro comunità in Sud America praticavano, infatti, una forma di equità”.

Mi ha citato il comunismo e il Sud America, viene facile il collegamento con ‘Queimada’ di Pontecorvo. All’epoca fu definito addirittura un film marxista. Ci può raccontare come nacque?

“La storia è un po’ lunga, Grimaldi (Alberto ndr, produttore della Pea) ci fece la proposta di fare un western politico. Franco Solinas peraltro aveva scritto poco prima ‘Quién sabe?’ di Damiani che era andato molto bene, così abbiamo scritto il soggetto de ‘Il mercenario’. Penso sia uno dei più belli che abbiamo fatto insieme. Lo presentammo a Gillo (Pontecorvo, ndr). Lui di solito annotava ogni cosa in un taccuino segnando le cose che non gli andavano con la matita blu e aggiungeva superlativi in positivo o in negativo in base a ciò che leggeva. Stavolta però non scrisse nulla, andò direttamente dal produttore e gli disse che non sarebbe stato capace di girare un film dove si estraevano pistole dal fodero, peccato che nel trattamento non c’era nessuna scena del genere. Era un modo per dire che quel film non voleva farlo, così fu passato a Corbucci, mentre noi ci siamo messi a cercare un’altra storia. Fu Franco ad avere l’idea di raccontare una rivoluzione; sfogliando l’Enciclopedia Britannica si era soffermato su quel periodo in cui l’impero spagnolo, ormai esangue, stava per essere travolto dalla modernità, pochi decenni prima della rivoluzione industriale. Era un mondo in cui la schiavitù era alla base dell’economia e dietro si muovevano personaggi a caccia di profitto che svolgevano anche il ruolo di agenti segreti. Abili doppiogiochisti, rivoluzionari, ma del capitalismo. Tra questi c’era William Walker, che è veramente esistito e grazie ad un gruppo di avventurieri è riuscito a conquistare il Nicaragua. Gillo stavolta accettò”.

E Marlon Brando come lo avete convinto?

“Dopo ‘La battaglia di Algeri’ mezza Hollywood voleva girare con Gillo, il copione arrivò negli Usa nelle mani di Harry Belafonte e Warren Beatty che si precipitarono entusiasti a Roma sperando di ottenere la parte. Ma loro due non erano adatti, il primo perché era troppo bello, il secondo invece troppo giovane, così convinsero Brando, che era loro amico. In questo modo il progetto diventò per metà americano, anche se inizialmente la Universal era piuttosto dubbiosa ed era sul punto di mandare a monte tutto quanto. Era una storia molto forte perché ‘Queimada’, nonostante sia ambientato nell’Ottocento, guardava alla contemporaneità con rimandi neanche tanto nascosti alla guerra del Vietnam e alla rivoluzione cubana. Ma Brando si impuntò, voleva girarlo a tutti i costi e si fece dimezzare il cachet per agevolarci. E il film partì”.

Dopo c’è stato ‘Ogro’ sull’attentato a Carrero Blanco…

“Sì, in quel caso il lavoro fu più difficile, con varie stesure. Non ne sono pienamente soddisfatto nonostante Gillo sia riuscito a fare delle scelte di regia molto potenti che hanno sciolto alcuni punti di scrittura un po’ macchinosi. Avevo anche pensato di raccontare la storia dal punto di vista delle mogli dei protagonisti, ma questa scelta fu accantonata”.

Fu l’ultimo lavoro insieme a Solinas se non ricordo male.

“Fu l’ultimo lavoro che fu trasformato in film. C’è anche un’altra sceneggiatura rimasta inedita: ‘La vita è come un treno, come un treno’. Non si fece perché Grimaldi la trovava troppo simile a ‘C’era una volta in America’ di Leone. Raccontava l’epopea di un eroe del vecchio West che viaggiava lungo gli Usa colpiti dalla peste durante i primi anni del Novecento tra mafia, lotte sindacali, rapine”.

E oggi? Pensa veramente che uno dei problema del cinema italiano sia proprio legato alla scrittura?

Non direi, anzi. Ci sono storie scritte benissimo. Per fare un esempio recente penso a ‘Veloce come il vento’ o ai lavori di Matteo Garrone. L’importante è avere sin dall’inizio una ambizione fortissima, smisurata, bisogna pensare sempre in grande quando si scrive una storia.

Francesco Bellu

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