Domenico Lovisato Isola degli Stati

Quando il Gennargentu svettò anche in Sud America

Presso l’archivio del Museo di Geologia e Paleontologia “Domenico Lovisato” del Dipartimento di Scienze della terra dell’Università di Cagliari sono custodite due mappe geografiche realizzate a mano che riproducono l’Isola degli Stati, ultimo lembo della Cordigliera delle Ande, separata dalla Terra del Fuoco dallo stretto di Le Maire.

Le carte furono utilizzate da Domenico Lovisato in occasione del viaggio naturalistico in Patagonia e nella Terra del Fuoco, la cosiddetta “spedizione nei mari australi” organizzata dal governo argentino col supporto scientifico degli italiani, compiuta tra il 1881 e il 1882.

La delegazione scientifica italiana, guidata da Giacomo Bove, era composta da Decio Vinciguerra, zoologo dell’Università di Genova, Carlo Spegazzini, botanico italiano ma residente a La Plata e personaggio di spicco del mondo universitario argentino, Giovanni Roncagli, che svolse l’importante ruolo di idrografo e disegnatore e Domenico Lovisato, geologo e vicecapo scientifico.

Le carte, che fanno parte dell’importante raccolta di documenti che Domenico Lovisato produsse nel corso delle sue attività di studio e di ricerca in Sardegna, in Italia e in Sud America, furono “ricopiate” a mano da una mappa dell’Isola degli Stati realizzata dal britannico Edward Nicholas Kendall del 1828.

La spedizione italiana nei territori meridionali della nascente nazione argentina aveva come finalità, tra le altre, quella di esplorare la costa della Terra del Fuoco per il posizionamento di boe e fari che potessero facilitare la navigazione in uno degli angoli di mare più pericolosi dell’Atlantico, che lo stesso Giacomo Bove, nel suo resoconto di viaggio, non esita a chiamare “cimitero delle navi”.

Quest’ultima finalità fu anche al centro dell’attività dei naturalisti italiani nell’Isola degli Stati, il cui territorio venne in parte esplorato e misurato tra l’inizio di febbraio e la fine di marzo del 1882. Tra le conseguenze di questo lavoro vi fu anche la costruzione del Faro di San Juan, conosciuto volgarmente come il Faro del Fin del Mundo, edificato nel 1884 e reso celebre da Jules Verne.

Sulle carte Lovisato annotò le altezze dei monti, molti dei quali vennero “battezzati” con nomi di personaggi celebri e con quelli di città e località legate, per vari motivi, al neonato Regno d’Italia. Infatti, se i nomi dei fiordi, delle baie e delle coste dell’isola ricordavano la supremazia inglese anche in quei mari, la toponomastica dei luoghi dell’interno dell’isola praticamente disabitata, era ancora “vergine” per gli occidentali.

Dando uno sguardo alle mappe, oggi disponibili in formato digitale sulla Sardoa digital library, quei nomi appaiono chiari e ben leggibili. Tra questi spicca, nella parte orientale dell’isola, una catena di monti dal profilo aspro e austero, situata tra il fiordo di Porto Cook, Port Vancouver e Blossom Bay: Lovisato la battezzò Catena del Gennargentu, in onore di quella che era già diventata la sua terra d’adozione.

All’epoca il naturalista istriano era professore di Geologia presso l’Università di Sassari. Al suo rientro, nel 1882, venne trasferito a Cagliari, città nella quale trascorse tutta la vita e nella quale morì nel 1916: i suoi resti si trovano nel cimitero monumentale di Bonaria.

Una lapide in granito dell’arcipelago della Maddalena testimonia il profondo legame con l’isola e, allo stesso tempo, simboleggia quell’attività di “mappatura” del territorio che il geologo irredentista e garibaldino compì tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, percorrendola in lungo e in largo col martelletto in mano.

Forse in quell’angolo di Sud America Lovisato vi scorse il ricordo di una Sardegna più antica, quando ancora regnavano i boschi e la vegetazione era rigogliosa, prima che quella piaga tutta umana chiamata disboscamento, che il geologo dei due mondi denunciò senza esitazione, trasformasse anche il Gennargentu, “il colosso sardo” in “un povero calvo, un vecchio decrepito”; prima che “l’inconsapevole bestia umana per ingordigia di danaro mutasse un paradiso in squallido deserto”.

Carlo Mulas

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