De Mola, sceneggiatore di Montalbano: “Ecco cosa mi lega alla Sardegna”

Salvo Montalbano è ormai una persona di casa, è come se lo conoscessi realmente, anche perché ormai sono passati la bellezza di 17 anni”. Salvatore De Mola quando racconta il commissario siciliano creato dalla penna di Andrea Camilleri lo descrive come se fosse una persona in carne ed ossa, viva e non un mero personaggio che esiste prima nelle pagine di un romanzo e poi nella fiction omonima targata Rai. Dal 2000 a oggi De Mola è, infatti, uno degli sceneggiatori della serie televisiva che è arrivata l’anno scorso alla decima stagione e si trova in questi giorni a Sassari per “Il cantiere delle Storie”, un progetto internazionale guidato dall’Università e dal Premio Solinas che si è svolto dal 30 gennaio al 1 febbraio in città e si articola su due fronti. Il primo riguarda dei laboratori sulla scrittura cinematografica in cui i finalisti selezionati dal premio Solinas metteranno al vaglio di una giuria selezionata i loro lavori, i quali andranno in seguito definiti in delle sceneggiature complete che concorreranno al il premio vero e proprio. Il secondo invece è un percorso di formazione che unisce architetti e cineasti per la realizzazione di un centro di alta formazione per il cinema e l’audiovisivo nell’isola de La Maddalena, terra di nascita di Franco Solinas, autore di copioni come “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo, e luogo dove dal 1986 si svolge la manifestazione a lui dedicata.

Un legame quello con il “Solinas” molto profondo per Salvatore De Mola che per ben tre volte ha ottenuto la menzione speciale per le sceneggiature: la prima nel 1992 con “Game over”, la seconda nel 1993 con “L’aria amara” e l’ultima nel 1999 per “La città degli angeli”. I primi due script sono frutto di un lavoro a quattro mani con Alessandro Piva, il regista pugliese de “Lacapagira”, per il quale De Mola ha sceneggiato il film “Mio cognato” con Luigi Lo Cascio e Sergio Rubini; l’altro lo ha realizzato insieme a Maddalena Ravagli. Il legame con la Sardegna non si ferma qui, basti pensare che è uno dei co-autori de “La stoffa dei sogni” di Gianfranco Cabiddu ambientato all’Asinara e uscito un paio di mesi fa nelle sale. A questo si aggiungono poi altre serie: dagli episodi del “Giovane Montalbano” sempre per la Rai, a “Francesco” di Michele Soavi su Canale 5 e “Nel nome del male”, diretta da Alex Infascelli con Fabrizio Bentivoglio, andata in onda su Sky.

Sardinia Post lo ha incontrato per una chiacchierata che, partendo dal suo ruolo di giurato al “Cantiere delle Storie” ha toccato vari aspetti dello storytelling e la narrazione seriale, passando da Montalbano al panorama americano.

Partiamo dal “Cantiere delle Storie”. A che punto siamo e come sta strutturando il laboratorio?

Questa è una sorta di secondo step, una tappa intermedia che segue i primi colloqui di indirizzo che si sono svolti nel mese di gennaio. Stiamo lavorando alle varie scalette che sono il passaggio precedente alla stesura vera e propria della sceneggiatura. I ragazzi sono molto ricettivi e disposti a mettersi in gioco, accettano i suggerimenti e metabolizzano in fretta. Dopo questa fase saranno infatti da soli, dovranno terminare le sceneggiature entro un mese e spedirle al “Solinas” dove ci sarà un’altra giuria che li valuterà.

È la prima volta che si procede in questa maniera?

Sì, le edizioni precedenti c’è stato solo un incontro preliminare. Devo dire che questo approccio è estremamente stimolante e quando mi è stato proposto, ho accettato subito. Ho un legame d’affetto con il premio Solinas perché devo proprio a questo riconoscimento l’inizio del mio mestiere di sceneggiatore.

Oggi i ragazzi che stanno iniziando hanno questa possibilità di avere gli strumenti fondamentali per imparare a scrivere per il cinema; quando lei ha iniziato una ventina di anni fa le occasioni era indubbiamente di meno. Cosa è cambiato rispetto ai suoi esordi?

Io ho iniziato negli anni Novanta e non c’erano tante scuole di scrittura come adesso, anzi forse oggi sono anche troppe, però c’era tantissima voglia di ricerca, di novità e questo entusiasmo in qualche modo bilanciava la poca esperienza. Pensa che la prima volta che partecipai al “Solinas” non vinse nessuno. Il premio non fu assegnato. Adesso dico, meno male perché, chissà, magari mi montavo la testa. Questo mi ha anzi fatto capire che potevo e dovevo migliorare. Attualmente molti ragazzi sono tecnicamente molto preparati e propongono soggetti e sceneggiature da manuale, costruite sin nei dettagli, ma non arrivano a comunicare nulla, perciò sarebbero preferibili storie meno perfette ma più forti e capaci di emozionare. Questo ovviamente vale sia per un film che per una serie. Per uno sceneggiatore non fa differenza.

Ha citato le serie, ovviamente viene in mente “Il commissario Montalbano” di cui ha scritto numerosi episodi. Com’è reinventare l’universo di Andrea Camilleri?

È indubbiamente una fortuna. Ho iniziato nel 2000 grazie a Francesco Bruni che aveva lavorato nei primi sette o otto episodi; aveva bisogno di un collaboratore e così sono entrato quasi dalla porta principale nel mondo di Vigata e mi sono ambientato subito. Salvo Montalbano è come se fosse una persona di casa ed è come se lo conoscessi realmente, anche perché ormai sono passati la bellezza di 17 anni. Però tanta fortuna esige anche tantissima responsabilità sia perché il personaggio è amatissimo, sia perché ha uno status morale così alto che non ci si può sbagliare.

Come funziona il lavoro di sintesi dei romanzi?

Di solito scegliamo un libro e due racconti, li si scaletta e prima di iniziare la sceneggiatura vera e propria, tutto viene sottoposto a Camilleri. Ci si attiene abbastanza fedelmente, alcune libertà creative però riusciamo a metterle nei racconti così come ne “Il giovane Montalbano”.

Ho notato che tra serie tv e i romanzi si crea una sorta di circuito comunicativo che non si esaurisce nel passaggio dalla pagina scritta all’adattamento televisivo ma anzi le due componenti si compenetrano a vicenda come se dialogassero tra loro, tanto da essere praticamente interscambiabili.

Assolutamente sì, serie e letteratura si aiutano. Faccio un esempio: in uno degli episodi che abbiamo raccordato mostravamo il matrimonio di Mimì Augello (il collega di Salvo Montalbano ndr.); nel libro di Camilleri uscito dopo l’episodio questo matrimonio era già mostrato come avvenuto. Il successo della serie ha inoltre fatto in modo che stimolasse ancor di più l’inventiva di Camilleri con nuove storie del commissario. Per noi ovviamente significa avere ancora più materiale narrativo su cui lavorare ed è meraviglioso.

Una parte fondamentale del successo della serie è anche legata a Luca Zingaretti che lo ha reso una vera e propria icona cult.

Certo, Luca ha trovato la somiglianza caratteriale con il personaggio più che quella fisica. Il Montalbano dei romanzi è fisicamente diverso da quello televisivo, ma lui è riuscito a dargli quell’umanità e quel senso di status morale, di cui parlavo prima, in maniera fortissima. Oggi Montalbano è Luca Zingaretti e viceversa, quando si leggono i romanzi ormai nella mente del lettore appare lui.

In chiusura, dall’Italia passiamo all’estero. Impossibile non chiederle il suo punto di vista sulla serialità americana.

La amo tantissimo, anzi sono convinto che ormai le serie Usa siano il grande romanzo americano contemporaneo e hanno la stessa forza rivoluzionaria, sia per argomenti sia per linguaggio, che in letteratura hanno avuto autori come Fitzgerald, Hemingway, Steinbeck e Dos Passos. Noi in Italia siamo ancora indietro, ma piano piano ci stiamo avvicinando. I casi di “Gomorra”, “Romanzo criminale” o “Suburra” ne sono l’esempio più lampante, la Rai ci ha provato con “I Medici”, ma in quel caso c’è ancora tanta strada da fare, nonostante sia comunque un inizio di un qualcosa di diverso. D’altronde il sistema sta cambiando grazie anche a piattaforme come Netflix o Amazon e inevitabilmente questo influirà anche sul modo di narrare una storia e anche una serie come Montalbano diverrà, con il passare del tempo, archeologia. Le persone ormai non accettano un prodotto supinamente, ma lo ricercano, lo vogliono scegliere. È un approccio più sofisticato che implica un innalzamento della qualità da parte dei network con la possibilità anche di osare sperimentazioni come “The young Pope” di Sorrentino che è un qualcosa di mai visto nel panorama italiano. Questo è il futuro più prossimo che si prospetta a chi scrive e fa cinema.

Francesco Bellu

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