“Ai confini tra Sardegna e Jazz”, un’edizione contro le guerre del mondo

Oltre un centinaio di appassionati di jazz hanno riempito le gradinate della piccola arena della chiesa di Sant’Anna Arresi, distesi alle pendici del nuraghe che domina la piazza, in trepidante attesa per l’apertura del festival Ai confini tra Sardegna e Jazz alla sua XXXIII edizione in scena dal 1° al 9 settembre.  Se per molti questo è il mese delle riflessioni, del ritorno dalle ferie e alla routine, del passaggio malinconico tra le stagioni, suggerito da tramonti frettolosi e i leggeri soprabiti la sera; per altri è un momento di rinascita e rinnovamento, il Cabudanne sardo, caratterizzato dai profumi del mosto, le passeggiate tra i boschi alla ricerca dei funghi o le sagre d’autunno. “Ogni anno è una sfida tra nuove idee e l’ambiente che ci circonda” esordisce così il segretario dell’associazione Punta Giara, organizzatrice del festival, Paolo Sodde: “Basilio Sulis – il patron della manifestazione- è riuscito anche stavolta a portare sul palco degli artisti con cui condivide una particolare visione del mondo e la sua espressione in musica come impegno sociale. Il titolo, carico di simboli “Integrazione sui 7/8”, ci rimanda al pianoforte e alla contrapposizioni: il bianco e il nero, il buono e il cattivo, ma soprattutto alla difficoltà dell’integrazione in questo particolare momento storico”. “Abbiamo pensato alle guerre, quelle grandi e atroci di cui sentiamo parlare ogni giorno. Assistiamo alle tragiche conseguenze e agli strascichi di questi conflitti, le migrazioni e i terrificanti viaggi nel Mediterraneo con barconi sgangherati guidati da persone senza scrupoli. Molto spesso arrivano qui, nella spiaggia di Porto Pino senza sapere nemmeno di trovarsi in Sardegna, a Sant’Anna Arresi, ma con un carico di speranza e sollievo per aver raggiunto finalmente la terraferma. Il nostro è un Comune accogliente e abbiamo voluto espandere questo sentire ad altre amministrazioni, come quella di Masainas e di San Giovanni Suergiu che da anni collaborano con il festival e nei quali si svolgeranno tre concerti tra cui la serata di chiusura”. Spazio alla musica, dunque, e a dare il via ai concerti i Roots Magic (nella foto di apertura, Alberto Popolla – Clarinetti, Enrico De Fabrittis – Sax, Gianfranco Tedeschi – Contrabbasso e Fabrizio Spera – Batteria) interpreti di ricercate sonorità blues e jazz old school in chiave personalissima e attuale. Il quartetto apre con Last Kind Word (Le ultime parole gentili) brano che dà il nome al disco, una rilettura del pezzo più celebre della musicista afroamericana Geeshie Wiley, scritto negli anni ’30 e che vuole raccontare con voce e chitarra la società di quell’epoca, segnando lo strappo tra la musica secolare nera e la nascita del blues. Le sonorità originali del gruppo romano, incontrano la tradizione – pur senza l’utilizzo della voce – passando in rassegna autori come Charley Patton (Down the dirt road blues), Roscoe Mitchell, Ornette Coleman (A girl named Rainbow), Julius Hemphill (Dogon AD), Sun Ra, John Carter e Marion Brown con un’indimenticabile November Cotton Flower, tratto dalla poesia di Jean Toomer, in cui la bellezza della di un’improbabile fioritura dei campi di cotone diviene preteso per raccontare la schiavitù di chi quei campi li lavora tra lo stremo e il terrore.

In seconda serata la White Desert Orchestra (nella foto sopra), diretta dalla pianista Eve Risser. L’ensemble, composto da Benjamin Dousteyssier – sax, Fidel Fourneyron – trombone, Marina Tantanozi – flauto, Fanny Lasfargues – basso, Yoko Oshim – batteria, Evind Loenning – tromba, Julien Desprez – chitarra, Sophie Bernado – basso, Antonin Tri-Hoang – sax, si affranca dall’uniformità dell’orchestra intesa in maniera classica per dare maggiore spazio al free-jazz e all’esplorazione degli strumenti in una vera e propria opera “disarmonica” seguendo però tecnicismi e forme sonore studiatissime e travolgenti. Il festival prosegue questa sera coi concerti di The Young Mothers e David Murray Quartet.

Martina Serusi

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