L’INTERVISTA. L’esperta di allerta e rischi: “Sardegna delicata e impreparata”

Una settima a cavallo tra settembre e ottobre, due diversi stati di allerta. Il primo ridimensionato, il secondo subito aggravato, col codice rosso, il massimo grado di pericolo. I sindaci di tutta la Sardegna, da Olbia al Sulcis,  con ordinanze simili hanno disposto la chiusura di tutte le scuole. A due anni dalla strage provocata dall’alluvione Cleopatra (19 morti, 13 in Gallura) le reazioni di cittadini e istituzioni hanno oscillato tra scetticismo, paura e incredulità. Di certo manca la consapevolezza collettiva del pericolo, questo il parere base di Paola Paola RizziRizzi, docente di Pianificazione Urbanistica presso la Facoltà di Architettura di Alghero, soprattutto esperta di prevenzione e grandi rischi. Uno sguardo che va al di là dei confini nazionali: è infatti una consulente soprattutto in Asia e Usa per fenomeni di grande impatto come tornado e tsunami.

L’immagine della Sardegna con tutti i quadranti rossi ha fatto il giro del web e delle bacheche social. Come si arriva a decretare una simile allerta?

C’è poco da fare, i margini di manovra sono limitati. Si tratta di un protocollo preciso, in presenza di determinate condizioni scattano le precauzioni. Tutti i rischi collegati al meteo, dalle alluvioni ai tifoni, sono legati a probabilità volatili. Basta che cambi uno solo dei fattori e il codice va rimodulato, proprio come è successo lunedì.  Le procedure sono rigide: arrivano dalla Protezione civile nazionale, poi c’è uno scambio e una verifica a livello regionale. In ogni caso si valuta l’esposizione delle persone e delle cose, nelle aree delicate e fragili, il rischio aumenta.

E poi se non piove, o non succede il disastro scattano le polemiche…

Su questo ci troviamo sempre davanti a un’impasse: tutte le volte che si limitano le persone in una loro libertà e poi non succede nulla c’è un dibattito velenoso. Ci si chiede il perché, i motivi che spingano gli enti e la Protezione civile a diramare allarmi comunque ufficiali. C’è da dire che dopo il 2013 in Sardegna la sensibilità degli amministratori è aumentata esponenzialmente, da qui le misure cautelari. In ogni caso io penso che sia meglio un “Al lupo in più che uno in meno”. Il problema vero è nella comunicazione, non nel tipo di allerta. Perché i cittadini, le persone, non sanno quale differenza ci sia in concreto nel caso di codice “arancione” e di codice “rosso”. Non sanno come affrontare il pericolo. Può aiutare il buonsenso, ma non basta.

E quindi scatta il “coprifuoco” dai piccoli paesi alle città..

Misura preventiva, ovvio, per evitare il peggio. Non ci sono alternative, spesso, per i piccoli sindaci. E in ogni caso le persone non sanno cosa fare. Le morti di due anni fa ci hanno insegnato che i comportamenti dei singoli sono imprevedibili: chi va in auto, chi esce… Perché manca un’educazione al rischio che in alcuni contesti internazionali è ormai assimilata, penso al Giappone, per esempio. Ogni genitore dovrebbe sapere se la scuola che frequenta il figlio ha un piano di evacuazione, e se ce l’ha ma lei è dall’altra parte della città deve o no prendere la macchina? Deve attraversare un sottopassaggio? Si potrebbe dire: basta la prudenza, i buoni consigli. No, non bastano. Questo perché le città soprattutto sono vulnerabili, fragili. Pensiamo a Olbia: a come è stata gestita la crescita dei quartieri, alla gestione dei rii.

E quindi ecco: “State tutti a casa”. Ma due anni fa qualcuno è morto proprio nella propria camera. È successo ad Arzachena, è successo nell’Oristanese… 

Certo, perché le costruzioni sono sotto il livello del terreno. Anche in questi casi l’effetto-trappola si scatena perché non si conosce il territorio o si sottovalutano i rischi, appunto. E ancora non si sa qual è il piano di evacuazione, quale il punto di raccolta. Una volta ho visto i post con i selfie e il video di due ragazze in piena alluvione a Milano con il Naviglio a rischio tracimazione. Ecco, una cosa da non fare. Oppure stare al telefono a raccontare all’amico cosa si vede, o tenere cose preziose nascoste in casa. C’è sempre la tentazione di andarle a prendere. Mancano le campagne capillari della Protezione civile, questione di risorse. Le persone sono ora informate, ma non consapevoli. Non capiscono il contenuto, né le conseguenze.

Superficialità?

Forse è un’attitudine che ci protegge dall’ansia, ma soprattutto la memoria è corta. Passata l’emergenza, scampato il pericolo tutto scorre.

E le previsioni precise?

Quasi impossibile farle, i fenomeni si sono intensificati, aumentati. Non solo a ottobre e novembre – mesi classici in per i nubifragi – ma anche a settembre. O in primavera e in estate. Quindi ecco che le campagne di prevenzione dovrebbero esser fatte tutto l’anno, le emergenze sono realtà con cui dobbiamo abituarci a convivere.  E invece sono una realtà marginale, relegate ad attività di serie B o destinate solo alle scuole… Come pratiche di corredo, non di sopravvivenza.

Vale anche per il cemento, parlo sempre di Olbia… Dal caso del ponte sul rio Siligheddu (ricostruito uguale) alle polemiche sugli espropri su cui pesa il compromesso della politica locale.

Un discorso davvero difficile, si è costruito in modo non conforme al territorio. Come fare col costruito? Demolire? In un territorio simile il rischio aumenta in modo esponenziale, appunto. Un rapporto difficile tra uso della proprietà e Regione. Perché se uno costruisce una casa sull’orlo di un burrone il rischio è personale, o no? Non può rivendicare nulla in caso di disgrazia.

E ma in questo caso il rischio è collettivo… 

Non siamo più abituati all’idea dell’esproprio. Siamo lontani dagli anni ’60 e ’70 in cui si è proceduto con questo metodo su larga scala. Anche per questo servono risorse, ci vuole qualcosa indietro. Si deve ricostruire da un’altra parte. Ma senza coscienza collettiva tutto è in salita.

Monia Melis

 

 

 

 

 

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