L’eccidio del ’43, per Gonnosfanadiga “fu un crimine di guerra”

Per i 96 morti del 17 febbraio, Gonnos chiederà “il riconoscimento del crimine di guerra”, hanno deciso Comune, parenti delle vittime e bambini del ’43.

L‘eccidio del ’43 fu un crimine di guerra: definirlo un errore, è un oltraggio alla memoria dei nostri 96 morti di settantadue anni fa. Siamo pronti a mettere in campo ogni azione utile perché così sia riconosciuto”. È questa la linea decisa a Gonnosfanadiga nell’assemblea pubblica che, stasera, ha fatto ritrovare i parenti delle vittime e i bambini del ’43.

Si arriva alla spicciolata nell’aula consiliare. In prima fila, tra gli altri, Ignazio Frongia che perse un braccio in quel pomeriggio del 17 febbraio e oggi si vede obbligato dall’ingiuria del tempo a stare su una sedia a rotelle. Ma “il sangue non si può cancellare“, dice.

I termini della causa vanno ancora decisi. Lo scenario più probabile è che si segua una doppia strada: da una parte la richiesta allo Stato italiano di riconoscere l’eccidio di Gonnosfanadiga come crimine di guerra; dall’altra un’identica sollecitazione agli Stati Uniti d’America, precisamente al Comando supremo delle Forze armate, cui appartenevano i piloti dei B-25 Mitchell che sganciarono 218 bombe nel centro abitato, più altre 210 nelle campagne.

I documenti per tentare che venga riconosciuto il crimine di guerra, li hanno raccolti Rita Concas e Giacomo Doglio. La Concas è assessore comunale al Turismo, impegnata da tempo a ricostruire la storia di quel pomeriggio, ma anche il profilo anagrafico di ogni vittima, comprese le parentele e la residenza. Doglio, invece, è un avvocato quarantottenne che l’eccidio del ’43 lo ha vissuto dai racconti dei suoi nonni, a cui le bombe a frammentazione lanciate dai B-25 Mitchell dell’aviazione americana uccisero due figli piccoli, un maschietto e una femminuccia.

Doglio dice: “Nei rapporti dell’aviazione Usa è scritto che a Gonnosfanadiga, quel pomeriggio, 8/10 di cielo erano coperti dalle nuvole, ciò che giustificherebbe la tesi dell’errore sostenuta dagli ufficiali del 310° Bomb Group. Sono stati loro a mettere nero su bianco di aver confuso il centro abitato di Gonnosfanadiga con la pista di Trunconi, l’aeroporto militare della vicina Villacidro. Ovvero, avrebbero sganciato le bombe su un obiettivo sbagliato perché la visuale era coperta dagli strati di nuvole. Invece – continua l’avvocato – dai bollettini meteo del 7 febbraio ’43, risulta che in tutte le stazioni della Sardegna la copertura massima del cielo era di 5/10. Ma, soprattutto, tutti i testimoni riferiscono concordemente che su Gonnos splendeva il sole”.

Su cosa possa aver spinto i piloti dei B-25 Mitchell a seminare morte nel paesino del Medio Campidano, Doglio un’idea se l’è fatta: “Gli aerei americani, che si trovavano a bassa quota come racconta ancora chi fu spettatore dell’eccidio, sganciarono le bombe a frammentazione sul centro del paese (piazza principale e mercato). È quindi ipotizzabile – sostiene il legale – che l’incursione fu pensata per destabilizzare la controffensiva italo-tedesca, quando ormai era chiaro che americani e inglesi sarebbero sbarcati in Italia per la liberazione dal nazi-fascismo. Del resto, bombardare un paese privo di difesa trasmetteva la sensazione che nessuno poteva sentirsi al sicuro”.

Accontenta tutti, la soluzione di richiedere il riconoscimento del crimine di guerra. Ma Comune, parenti delle vittime e i bambini del ’43 hanno anche deciso di mettere in campo iniziative finalizzate a conservare la memoria storica. Una delle opzioni è costituire una Fondazione. Ma si punterà pure sulla raccolta organica delle testimonianza orali, necessarie a ricomporre con la massima precisione i fatti di quel pomeriggio.

Nell’aula consiliare parla pure Carlo Nurchi, ingegnere, classe ’19: era un ufficiale dell’Esercito di stanza a Gonnos quando gli aerei della Twelfth Air Force spensero 96 vite, di cui 25 bambini. Centinaia furono i feriti. “Io – dice Nurchi – ricordo che lo stormo di B-25 Mitchell era preceduto da un caccia e solo un bombardiere seminò la morte”.

Raffaele Meloni, 79 anni, ne aveva sette quando ai tempi dell’eccidio. Meloni è un avvocato specializzato in Diritto internazionale, una casa a Barcellona dove per lavoro vive da ventitré anni e la certezza che “gli americani non ci pagheranno, non risarciscono nessuno loro. Ma noi non ci faremo portare via il diritto di conservare la memoria: è il nostro riscatto morale, andremo sino in fondo”.

Melis, poi, chiede che a Doglio venga assegnata “la cittadinanza onoraria: è suo il merito di aver trovato le carte che smentiscono la tesi resa dall’aviazione americana. E comunque è un ricordo di tutti noi il cielo abbastanza terso in quel pomeriggio del 17 febbraio”.

Antonio Meloni aveva invece 14 anni, quando i B-25 Mitchell ferirono a morte Gonnosfanadiga. “Come se fosse oggi – dice – ho in mente le urla, il sangue, i mutilati e il tumulto. Dobbiamo volere la pace, tutti, e stare uniti per difenderla”.

A rappresentare il Comune c’era anche il vicesindaco-assessore Pinuccia Peddis. “È un impegno di questa amministrazione, e non da oggi – spiega l’esponente della Giunta – mettere insieme le testimonianze dell’eccidio, i documenti e i ricordi”.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

Diventa anche tu sostenitore di SardiniaPost.it

Care lettrici e cari lettori,
Sardinia Post è sempre stato un giornale gratuito. E lo sarà anche in futuro. Non smetteremo di raccontare quello che gli altri non dicono e non scrivono. E lo faremo sempre sette giorni su sette, nella maniera più accurata possibile. Oggi più che mai il vostro supporto è prezioso per garantire un giornalismo di qualità, di inchiesta e di denuncia. Un giornalismo libero da censure.

Per ricevere gli aggiornamenti di Sardiniapost nella tua casella di posta inserisci la tua e-mail nel box qui sotto:

Related Posts
Total
0
Share