Le minacce di Mesina per “liberare” le terre sul mare di Silvio Berlusconi

Un capraro minacciato, i suoi cani legati e bastonati. Sono queste le attività svolte da Graziano Mesina per risolvere la controversia sui terreni di Capo Ceraso a favore dell’Immobiliare Alta Italia, società di Silvio Berlusconi, così come emergono dai “brogliacci” delle intercettazioni ambientali svolte durante l’inchiesta che ha riportato in cella la cosiddetta “primula rossa” del Supramonte.

I “brogliacci” non sono la trascrizione letterale delle intercettazioni ma quanto, mentre erano in corso, annotavano gli uomini addetti all’ascolto. Si tratta dunque di sintesi “di senso”. Ma il senso che emerge dai frammenti anticipati su L’Unione sarda di oggi da Maria Francesca Chiappe lasciano poco spazio al dubbio: delineano minacce, intimidazioni, pressioni. E chiariscono perché sulla “mediazione immobiliare” svolta da  Mesina sia stata aperta una specifica inchiesta.

La controversia sui 500 ettari di Capo Ceraso vedeva da una parte l’Immobiliare Alta Italia, dall’altra il pastore Paolo Murgia che sosteneva di essere diventato proprietario di quelle terre – dove aveva fatto pascolare il suo gregge per due decenni – per usucapione. La controversia era cominciata all’inizio degli anni Ottanta e si concluse nel 2010 quando, pochi mesi prima di morire, Murgia accettò la transazione proposta da Mesina.

La notizia all’epoca emerse. Il  Corriere della Sera raccontò la storia del pastore che, dopo una resistenza durata anni, aveva obbligato uno degli uomini più ricchi del mondo ad accordarsi con lui e a versargli 700mila euro. Si parlò fin da allora dell’intervento persuasivo di Mesina.

Ma erano altri tempi. L’ex ergastolano era un divo televisivo, amico di uomini importanti, e nessuno sospettava che potesse aver ripreso la cattiva strada. Così non si fece caso al fatto che quella cifra era di molto inferiore ad altre cifre (fino a tre milioni di euro) che Murgia aveva rivendicato negli anni precedenti.

La nuova inchiesta è stata aperta proprio perché durante l’indagine si è fatto strada il sospetto che Murgia sia stato convinto non sempre con le buone maniere. Tanto più che di quei 700mila euro a finire nelle sue tasche furono 500mila. La parte restante finì nelle tasche di Mesina.

 

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