Il bandito, il pastore e il Cavaliere. La mediazione di Graziano Mesina per una società immobiliare di Berlusconi

Tre anni fa, quando il Corriere della Sera diede la notizia, parve la versione immobiliare della storia di Davide e Golia. Dove il piccolo Davide era l’anziano pastore Paolo Murgia e il gigante Golia era nientemeno che Silvio Berlusconi. Adesso quella vicenda è finita nelle carte dell’inchiesta sulle nuove attività criminali di Graziano Mesina.

Già, perché l’ex bandito (o il bandito mai diventato ex, come sospettano magistrato e carabinieri) si occupava anche di intermediazioni immobiliari (e di recupero crediti). Con metodi a quanto pare a volte un po’ bruschi. E’ il filone dell’indagine di cui si è fino a ora parlato meno perché è il più complesso. E probabilmente anche perché, in generale, il confine tra l’avvertimento amichevole e la minaccia è molto sottile quando, a rivolgere l’avvertimento, è il titolare di un nome che da solo può suonare come una minaccia.

Fatto sta che il pastore Paolo Murgia, morto nel 2010 all’età di 87 anni, divenne una specie di Davide sardo per essersi opposto a un colossale progetto immobiliare a Capo Ceraso dove, negli anni Ottanta, Silvio Berlusconi – all’epoca sconosciuto agli italiani ma già ben noto negli ambienti imprenditoriali per aver creato “Milano due” – voleva realizzare “Olbia due” e cioè un porto con 2500 posti barca, ville e alberghi per quattro milioni e mezzo di metri cubi (poi ridotti a 250mila).

Una parte rilevante di quel progetto riguardava un’area di 500 ettari che in passato – prima che con la nascita della Costa Smeralda i terreni costieri moltiplicassero il loro valore – non interessava nessuno. Uno di quei terreni davvero buoni solo per le capre (e con più fatica per le pecore) che, al momento delle divisioni dei grandi patrimoni familiari, si diceva che venissero attribuiti alle figlie femmine mentre ai maschi andavano le aree dell’entroterra, molto più fertili e molto meno impervie.

Paolo Murgia a Capo Ceraso era arrivato nel 1964, cioè quando quelle terre ancora non valevano niente. “Allora era un Far West – raccontò nel 2010 ad Alberto Pinna del Corriere della Sera Mario Murgia, il figlio – chi prima arrivava diventava padrone”. In effetti nessuno fece caso all’arrivo di quel pastore col suo gregge di cento pecore. Né si fece vivo per chiedere spiegazioni sulla sua presenza o rivendicare un canone d’affitto. Niente. Come se davvero si trattasse di una landa desolata del Nuovo Mondo. E la cosa andò avanti per un tempo molto lungo. Quello che, in base al diritto civile, fa scattare l’usucapione.

Non si sa chi infornmò Paolo Murgia dell’esistenza  di un modo di acquisire la proprietà di un terreno attraverso il suo utilizzo ininterrotto per vent’anni, ma anche la metà a determinate condizioni. Fatto sta che quando venne a sapere che una grande società immobiliare milanese voleva trasformare il suo pascolo in una città, Murgia decise di resistere.

Resistette per anni. E quando gli fu proposto un indennizzo per liberare il terreno, chiese cifre molto rilevanti. Secondo il Corriere della Sera, un miliardo di lire. Ma poi, quando scoprì di poter rivendicare un’area ancora più vasta, portò la richiesta fino a tre milioni di euro. Di certo la sua resistenza in giudizio  (la questione, infatti, a un certo punto finì davanti al giudice civile) ebbe un ruolo determinante nel bloccare il progetto e comunque nel costringere Berlusconi a ridimensionarlo.

Ma nel 2010, pochi mesi prima di morire, il vecchio pastore cambiò atteggiamento. E fu allora che il Corriere scoprì la notizia, poi ripresa da tutti gli organi di stampa. Accettò di lasciare liberi quei terreni per 700mila euro. Curiosamente, benché la cifra fosse inferiore in modo considerevole rispetto alle richieste precedenti, se ne parlò come di una straordinaria vittoria dell’astuto pastore sardo sull’immobiliarista milanese (nello specifico sull‘Immobiliare Alta Italia, la società che acquisì i terreni). E nessuno ritenne di dover approfondire più di tanto l’altra notizia che compariva alla fine di quello stesso articolo.

Murgia conosceva Antonio Mesina, fratello di Grazianeddu. Il quale, informato della vicenda, decise di offrire la propria consulenza. Con una frase lapidaria: “Questa storia te la risolvo io”. In poco tempo l’affare si chiuse. Con una clausola: che quei terreni sarebbe stato custoditi da una “persona di fiducia” dei contraenti: lo stesso Graziano Mesina.

Adesso – secondo l’Unione sarda oggi in edicola – anche quella transazione è finita nell’inchiesta. Il dubbio è, in sostanza, che ci sia stata un’ innovazione rispetto al famoso episodio biblico: non la vittoria di Davide, ma la sostituzione di Golia.

Nicolò Businco

 

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