“Le divise di Teulada e quella polvere bianca che ci ha fatto ammalare”

In attesa della verità a Teulada ci si continua ad ammalare. Le bonifiche dei militari vanno avanti, la procura di Cagliari fa il suo percorso, la vita scorre a Teulada, ma le morti e i casi di tumore in paese non si fermano. Adesso sta male anche il marito di Elisa Zedda, l’attivista che da anni porta avanti la battaglia delle famiglie teuladine. Non è il solo: un altro dei fratelli Murgia (la famiglia che gestiva la lavanderia dove venivano portate le divise dei militari impegnati nel poligono) è peggiorato. Proprio come altri giovani del paese che avevano manifestato i primi sintomi della malattia e negli ultimi mesi non hanno più partecipato alle riunioni del comitato guidato dalla Zedda. “Adesso sta male anche mio fratello”, afferma Carla Murgia, “ma non vogliamo mollare, vogliamo giustizia per noi e per tutte le persone che a Teulada sono state male per lo stesso motivo”.

La giustizia va avanti meno velocemente della malattia. Quelle micro particelle sono sottilissime, infinitesimali e per questo subdole. Per anni le hanno inalate involontariamente i fratelli Murgia. Centinaia di divise da lavare e stirare ogni giorno, per anni. Divise dei militari che spesso andavano a esercitarsi nel poligono Delta, davanti alla spiaggia di Capo Zafferano. Tra bombe ed esplosivi micidiali. Su sei fratelli, cinque si sono ammalati, il sesto no, perché vent’anni fa è partito in Sud America. Adesso sta molto male anche l’altro fratello. Lui però ha deciso di non curare quel gonfiore sospetto tra gola e viso, che ultimamente è cresciuto e non gli dà tregua. Una storia triste quella della famiglia Murgia, triste ma terribilmente vera, per giunta supportata dal rapporto dell’Iarc (International Agency for Research on Cancer) che nell’ottobre del 2013 ha stabilito definitivamente che l’aria può veicolare sostanze cancerogene in micro particelle, e ha sancito l’alta cancerogenicità delle polveri, sulle quali in Italia indaga da anni la dottoressa Morena Antonietta Gatti.

La studiosa è stata capace di individuare nanoparticelle specifiche prodotte da inquinamento bellico nei tessuti, sia di militari inviati nei teatri di guerra, sia di militari in servizio nei poligoni sardi, sia di popolazioni e di greggi che vivono nel circondario dei poligoni. Come quello di Capo Teulada, per il quale hanno lavorato per lungo tempo i fratelli Murgia. Una testimonianza, la loro, acquisita dagli inquirenti della Procura di Cagliari che è parte integrante (insieme a quelle di altri 60 casi analoghi) del fascicolo dell’inchiesta aperta per verificare la relazione tra le morti tra i militari e i civili e le attività che si svolgono all’interno del poligono. Una storia dolorosa, che Carla Murgia, una delle quattro donne (più due uomini) della famiglia, ricorda e racconta malvolentieri. Ma alla fine racconta, perché sia un monito, perché serva, perché porti giustizia a chi come lei ha visto la sua vita distrutta. “Per tanto tempo abbiamo lavato quelle divise”, spiega, “quelle polveri ci hanno fatto ammalare”. Erano gli anni Novanta, la sensibilità e l’attenzione erano diverse, ma il rapporto matematico (cinque su sei fratelli ammalati) e i numerosi altri casi di tumori, leucemie e linfomi nel territorio lasciano pochi dubbi.

L’ormai ex comandante della base di Teulada Sandro Branca due settimane fa affermò di non essere preoccupato per i casi di tumore in paese, perché (secondo lui) “l’indice di malati di cancro nella zona non era superiore alla media nazionale”. In realtà basta farsi un giro nel cimitero di Teulada per rendersi conto di quante siano (e quanto siano ravvicinate dal punto di vista cronologico) le persone defunte (molte delle quali in giovane età) per casi di tumore. Una percentuale elevata che portò il comitato dei familiari delle vittime a riunirsi e a discutere insieme alla Gatti della crescita costante dei casi di malattia (e dei morti negli ultimi due anni). “Quelle polveri bianche e appiccicose che si depositavano sulla macchia mediterranea e sulle divise dei militari hanno, molto probabilmente, causato la malattia”. Carla Murgia le ha inalate involontariamente insieme ai familiari, ma va avanti e lotta, per cercare di capire, ma soprattutto per evitare nuovi casi e nuove situazioni simili alla sua. Un sacrificio pacato, senza clamori, perché “la notorietà è una bellissima cosa, finché nessuno ti conosce”, ma dare l’esempio, affinché tutto ciò non si ripeta, è indispensabile. Un sacrificio che diventi utile e che, grazie anche al sostegno dell’attivista Elisa Zedda (toccante e applauditissimo il suo intervento a Capo Frasca), porti luce e verità sulla vicenda. Proprio la Zedda che ha un terreno vicino al poligono, si è battuta insieme alla famiglia Murgia per arrivare alla verità: “Ora sta male anche mio marito”, conferma la Zedda, “lui si sta curando e fortunatamente reagisce bene. Ma quando aveva 58 anni ha dovuto lasciare il lavoro e psicologicamente non sta certo bene. Prima faceva l’artigiano e il lavoro rappresentava una valvola di sfogo”. Storie simili, che si intrecciano e hanno sempre un comune denominatore, la sofferenza. “Abbiamo cominciato noi ad andare di casa in casa a chiedere se ci fossero ammalati”, puntualizza Elisa Zedda, “che problemi avessero avuto, quali patologie. L’esempio della famiglia Murgia è servito”. Prima la vergogna e l’omertà avevano il sopravvento, ora il vento è cambiato. E questa volta il vento non porta solo polveri sottili. “Mi auguro porti speranza”, conclude Carla Murgia, “per noi. Per tutti. Per un territorio che per anni ha sofferto e tuttora soffre”.

Federico Fonnesu

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