Sony World Photography Awards e il fotografo uscito dalla finestra e rientrato dalla porta

Era uscito malamente dalla finestra Giovanni Troilo, scaraventato fuori dalla giuria del World Press Photo che, dopo aver premiato il suo lavoro The Dark Heart of Europe sulla città di Charleroi, lo ha squalificato con un cavillo che ai più è sembrato un maldestro tentativo per tacitare le critiche accese per un lavoro dove il reportage si mescolava con disinvoltura allo Storytelling. I fatti sono stati raccontati su questo blog con un post titolato Cronaca di una figuraccia mondiale

In questi giorni Troilo rientra dalla porta principale con il premio assegnato, allo stesso lavoro, dal Sony World Photography Awards 2015 che lo ha nominato “fotografo dell’anno” nella categoria persone. Una rivincita per il fotografo e una marea di perplessità per chi assiste a questo giochetto fra prestigiosi premi che si contraddicono vicendevolmente.

Premettendo che le regole dei due concorsi sono diverse e, forse, quelle del Sony Awards sono meno rigide restano comunque un bel po’ di interrogativi. I giudici del Sony conoscevano bene la storia di quel lavoro che, per stessa ammissione del fotografo, aveva numerose immagini ricostruite con figuranti che rappresentavano scene che il fotografo asserisce di avere visto personalmente ma non fotografato in quel momento.

Perché premiare un lavoro che i giudici dell’altro concorso (concorrente) avevano squalificato? Per dissociarsi da quella decisione? Oppure il lavoro di Troilo è straordinariamente interessante? Certamente è una storia attentamente costruita con immagini dalle atmosfere cupe e di grande impatto evocativo, ma forse il punto è un altro, forse bisogna andare alle radici del problema. In primis la constatazione che questi premi internazionali certificano ed indirizzano le tendenze della fotografia. Hanno quindi un forte potere di condizionamento sui contenuti e sui canoni estetici della fotografia dei prossimi anni.

E qui torna ad echeggiate quella parolina magica che si chiama Storytelling che, in qualche modo, si sta insinuando nel fotogiornalismo ottenendo da questi organismi una potente legittimazione. Troilo, intervistato da Worldphoto, tira in ballo la solita storia dell’ambiguità/falsità della fotografia che giustificherebbe non solo  l’affermazione (legittima, per carità) di un punto di vista, ma anche una forma di comunicazione dove la realtà si fonde con il racconto, interpretato e messo in scena dal fotografo. Testualmente: «Al momento penso che il pubblico e i fotografi sono pronti per nuove forme di narrazione, dove la realtà si fonde con una visione più personale».

Lo Storytelling è magistralmente descritto da Michele Smargiassi in questo post del suo blog Fotocrazia: “Storytelling non è semplicemente l’arte di saper raccontare bene una storia. Storytelling è una tecnica specificamente e scientificamente studiata per forgiare, servendosi di una storia, cioè mettendo a frutto  le regole formali e le suggestioni emotive dello stile narrativo, un efficace strumento di comunicazione di contenuti non narrativi. In genere, contenuti ideologici. Nel bene e nel male”.

E’ una tecnica finora applicata al marketing, alla politica, alla sociologia, al cinema. Utilizzata nel fotogiornalismp diventa una scorciatoia eccellente per chi vuole rendere accattivante una storia passando per ambientazioni e manipolazioni estetiche e formali molto utili per vendere un reportage (ma possiamo ancora chiamarlo così?) in tempi di crisi del giornalismo dell’immagine. Una tecnica molto gradita anche ai grandi gruppi editoriali. E non è un caso se importanti Awards internazionali di fotografia si stiano dando da fare per sdoganarla.

Quindi il Reportage rischia seriamente di raccontare non la realtà (pur necessariamente filtrata dal punto di vista del fotografo) ma una storia più o meno aderente ad essa, certamente più accattivante, più commerciabile. Una china pericolosa perché porta ad una svolta narrativa in cui le fotografie diventano un accessorio, una seducente illustrazione dove il dolore diventa un quadro di Caravaggio e il soggetto della storia può essere il cugino del fotografo spacciato per il protagonista.

Enrico Pinna

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