La fotografia è sempre stata un medium efficacissimo per raccontare o rappresentare la malattia. Tantissimi fotografi si sono incamminati in questi difficili percorsi che indagano la sofferenza facendo i conti con gli aspetti umani e sociali che la accompagnano.
Gli storici reportage di Uliano Lucas, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin sulla malattia mentale hanno fatto scuola, come il lavoro di Eugene Smith sugli effetti del mercurio negli abitanti del villaggio di Minamata in Giappone. E poi innumerevoli altri reportage hanno proseguito sul solco dell’indagine umana e sociologica delle malattie croniche e incurabili.
Ma si parla sempre di racconti vissuti in terza persona, si parla della sofferenza degli altri. Cosa diversa è raccontare attraverso la fotografia il proprio dolore, la propria malattia. Qui il racconto diventa necessariamente più intimo, i riferimenti visivi eludono il sociale per farsi autonarrazione, diario personale sofferto. E la fotografia si fa quasi terapia.
Il ricordo va a Jo Spence che ha raccontato la sua lotta contro il cancro in un diario visivo che era una dolente messa in scena delle mutilazioni del suo corpo e, in trasparenza, quelle dell’anima. Lei nuda, con il corpo segnato dal bisturi in una autorappresentazione piena di rabbia, ma anche di lucida consapevolezza di voler essere persona protagonista delle sue cure e non oggetto di terapie che non condivideva. Nasceva la Photo-Therapy che, insieme a cure alternative di medicina cinese, la tennero in vita per parecchi anni ancora.
Diverso il registro di Egle Picozzi con il suo lavoro SM esposto alla sala delle terrazze dell’Exmà sino all’8 maggio. SM è un acronimo ambiguo che, tuttavia, una volta sciolto, rivela la sua doppia natura, ironica e drammatica al contempo. Prende il nome, infatti, dalla malattia che da circa un anno condiziona i suoi stati d’animo e le sue condizioni fisiche: la Sclerosi Multipla.
La fotografia assume nel lavoro dell’artista la direttrice espressiva dell’ironia con cui la fotografa gioca con la malattia, impara a conoscerla e, in una dimensione utopica cerca di guarirla. “Egle Picozzi — scrive Ivo Serafino Fenu — reinterpreta la figura cara a certa avanguardia novecentesca, Joseph Beuys in primis, dell’artista-sciamano, nella fattispecie, sciamano di e per se stessa. Più che un’utopia necessaria si tratta, dunque, di un’ironia necessaria, e la fotografia è lo strumento indispensabile per istituire un dialogo silenzioso con questa invadente compagna di viaggio: un esorcismo estetico mediante un rito apotropaico tecnologico e contemporaneo, impertinentemente kitsch. L’artista allestisce ironici teatrini nei quali invita la malattia a giocare con dolcezza, palesandone icasticamente le evoluzioni che coinvolgono tutte le funzioni del suo sistema nervoso. Ne ripercorrono, in chiave tragicomica, le fasi di ricaduta che, nell’ultimo anno l’hanno costretta a combattere con una compagna di viaggio imprevedibile e bizzarra. Che, di volta in volta, si manifesta in episodi di diplopia, di infiammazione ai nervi facciali, di emiparesi e di iperacusia, di fasi di rigidità o improvvise scosse che, a momenti alterni, attraversano il suo corpo dalla testa ai piedi.”
Le ambientazioni e le atmosfere sono curatissime, permeate di un ordine formale perfetto. «Perché — sottolinea Egle — quando nella tua casa si installa un ospite invadente e poco educato, una sorta di familiare estraneo, tutto deve essere al posto giusto, sotto controllo. Puoi permetterti la casa disordinata con un’amica o un parente. Non con questa sconosciuta che pure conosci (fin troppo) bene e vorresti mandare via. Ma lei non ne vuol sentire di andarsene. Rimane lì, e anche quando sembra uscita dalla tua vita, ritorna ora subdola e strisciante, ora violenta ed invadente.»
Enrico Pinna