L’impossibile reciprocità: la fotografia protagonista a Universitart

Non poteva mancare la fotografia nella rassegna d’arte Universitart 2012 appena conclusa. Un forum condotto da Luisa Siddi, fotografa, giornalista, cofondatrice e direttrice della rivista “Fuoritema” e appassionata organizzatrice di progetti collettivi, fornisce interessanti spunti di dibattito sul dove va la fotografia. Un discorso lungo e colto che, passando per Roland Barthes, John Berger, Levi Strauss arriva alla necessità di riequilibrare il rapporto reciproco fra fotografo e soggetto, da sempre sbilanciato a favore del primo, per (ri)scoprire un trascurato orizzonte della fotografia: l’autorappresentazione. Il discorso va avanti con spunti apparentemente slegati, quasi “fuori tema”, per saldarsi alla fine, in maniera quasi inattesa.

L’incipit è scontato: cos’è la fotografia? Per rispondere alla domanda chiediamoci cos’è la fotografia oggi. Secondo Luisa la fotografia odierna soffre di una profonda scissione fra etica ed estetica. Una fotografia omologata a canoni che vogliono foto “belle” anche nella rappresentazione del dolore. Regolarmente premiate al World Press, che è il più importante premio fotogiornalistico mondiale.

 

Quando si parla di fotografia non può mancare Roland Barthes, semiologo, affascinato da questa “strana” arte. Lui, non fotografo, vede la fotografia come il mezzo espressivo che meglio rappresenta ciò che è stato. La fotografia rende quindi un assurdo temporale: l’eterno presente. Nel suo piccolo fulminante saggio “la camera chiara” mostra la foto di un condannato a morte con la paradossale didascalia: “è morto e sta per morire”. Ma la foto lascia immaginare anche un incrocio di sguardi, fra fotografo e soggetto, che comincia ad introdurre il tema della reciprocità.

Compare ora, nelle slides, una sorprendente e poco conosciuta fotografa inglese, Jo Spence che ha centrato la sua visione della fotografia sull’autorappresentazione. Anche quando, ammalatasi di cancro, la utilizzò come terapia, non esitando a mostrare le sue mutilazioni, le sue paure, le sue dolorose scelte quotidiane. Ha raccontato il proprio punto di vista e il suo dolore. Non di quello degli altri.

Ora i discorsi paralleli, lasciati aperti, e cominciano a convergere proprio sul “punto di vista” che è un atto fotografico di grande consapevolezza. E affermare il proprio punto di vista conduce quasi impercettibilmente a Foucault e alla necessità inevitabile di riferire il testo al disegno. Siamo arrivati alla didascalia che permette di dichiarare onestamente il proprio punto di vista e le proprie intenzioni. Anche quando si tratta di mentire, essere ironici, paradossali. Le foto non parlano da sole (non sempre) e il linguaggio fotografico ha bisogno di interagire con il linguaggio delle parole.

Ma cosa c’entra ora John Berger, poliedrica figura di intellettuale, e il suo saggio “Perchè guardare gli animali”? Berger fissa lo sguardo sul nostro contradditorio rapporto con il mondo animale. Siamo avidi delle loro fotografie perché tra i nostri due mondi esiste uno stretto abisso di non comprensione. Cerchiamo invano di riconoscerci in alcuni loro aspetti, ma con le nostre necessità siamo causa di estinzione di intere specie. Eppure con le loro vite parallele gli animali offrono all’essere umano una compagnia diversa da quella che può essergli offerta da un altro essere umano. Diversa perché offerta alla solitudine dell’uomo come specie.

Ecco che, dopo tanti flash apparentemente slegati, le tessere del mosaico cominciano ad incastrarsi. Fra noi e gli animali non esiste un rapporto di reciprocità. Come non esiste fra i fotoreporter che si accalcano, alla ricerca della foto dell’anno, e le sofferenti vittime della guerra. Il rapporto non è reciproco perché il reporter può vedere lo sguardo del soggetto, il quale non può incrociare il proprio con quello del fotografo. è lui a decidere quale sguardo rappresentare. è lui, non l’altro, ad affermare il suo punto di vista.

E allora? Allora la dignità della fotografia potrebbe avere bisogno di rivalutare l’autorappresentazione. La stessa che ha salvato Jo Spence dalla sua malattia.

Quindi l’esortazione di Luisa è questa: « Se, dopo tutto questo, avete ancora voglia di fotografare partite dalla vostra storia, dalla vostra vita, dal vostro punto di vista ed abbiate il coraggio di rivendicarlo. Immaginate che etica ed estetica procedano nuovamente di pari passo, come nella Grecia classica dove “ciò che è bello è anche buono”. E non dimenticate che, nonostante le apparenze, questi sono i tempi migliori. Quando ovunque riecheggia lo stereotipo è il momento delle avanguardie!».

Enrico Pinna

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