L’Asinara nei paesaggi sospesi di Marco Delogu

Non sempre quando visito una mostra fotografica riesco a trovare subito quel chiaro percorso di lettura e di comprensione necessario scriverne con proprietà. Vedendo quei 25 scatti di Marco Delogu all’Asinara, esposti presso la sede cagliaritana della Fondazione di Sardegna, ho sentito che quelle foto occorreva prima ascoltarle con attenzione. D’altronde il mio giornale aveva già pubblicato la notizia della mostra e allora, libero da doveri di cronaca tempestiva, mi sono preso una pausa prima di scrivere, con il pretesto di attendere l’annunciata uscita del catalogo e confortato dalla lunga durata dell’esposizione. Ora sto sfogliando il bel libro “Marco Delogu – Asinara” edito da Punctum ed è arrivato il tempo di mettere ordine nelle mie riflessioni.

ASINARA è una mostra allestita presso la sede della Fondazione di Sardegna, in via San Salvatore da Horta 2 a Cagliari, visitabile sino a fine febbraio 2018, che raccoglie 25 scatti di Marco Delogu, fotografo di caratura internazionale, attuale direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Londra. “Il progetto — scrive Delogu — ha previsto un lavoro di ricognizione sul paesaggio ‘notturno’, sotto la luce della luna dell’isola. Con la prima luna d’agosto, l’Asinara è stata percorsa alla ricerca di una sua identità profonda, le poche costruzioni, la natura interna e il mare”.

Sono stato anch’io all’Asinara in agosto. Ho noleggiato una piccola auto elettrica (l’unica in teoria abilitata a circolare nell’isola) e mi sono immerso nelle sue contraddizioni. Ho incontrato trenini carichi di turisti estasiati e vociosi, fuoristrada che accompagnano i visitatori nei sentieri meno accessibili. Ho visto portatori di telefonini avventarsi a fotografare le stanze dove Riina dormiva o veniva sbarbato e fare l’immancabile selfie davanti a luoghi ancora segnati dalla sofferenza. Ho notato la stratificazione confusa degli edifici contrapposta alla perfezione della sua natura.

Pur essendo attrezzato di tutto punto non sono riuscito a scattare una sola fotografia. Come mi è successo visitando la mostra di Delogu avevo la sensazione che quell’isola avesse un’anima tutt’altro che semplice e banale. Che dovesse prima essere “ascoltata” e solo dopo guardata e fotografata. Vedendo i suoi scatti penso che anche il fotografo abbia fatto lo stesso.

Percorrendo le strade dell’isola c’è una sensazione di opposti e di paradossi, di giustizia e di ingiustizia, di splendore e di miserie. I ruderi e la storia parlano di famiglie trasferite forzosamente per fare spazio a stazioni di quarantena. Di delinquenti incarcerati e di carcerieri paradossalmente imprigionati come loro. Di giustizia inflessibile, con l’isolamento di pericolosi mafiosi, e di ingiustizie inspiegabili subite dalle migliaia di prigionieri austriaci che riposano nell’ossario.

Forse per ascoltare queste storie, senza sentirle sibilare troppo forte nelle orecchie come il maestrale, bisogna attendere la notte quando, nella quiete d’agosto, riemergono pian piano, con passo incerto e leggero, tutte le anime che l’hanno popolata nei secoli. Occorre vedere e ascoltare, come ha fatto Marco Delogu, per restituire quei paesaggi sospesi nell’incertezza del mosso, quel buio notturno con la chiarezza del giorno. Ecco che tutto si fa meno scuro, più netto e definito. La metafora si fa racconto, visione nitida di un’identità che appariva confusa, sospesa.

“Con le sue fotografie notturne — scrive a questo proposito Edoardo Albinati, vincitore del Premio Strega 2016 — Marco Delogu raggiunge un punto inedito dove queste tensioni estreme sono sospese. Le figure e i profili si spogliano del loro significato e, se non ci fosse il titolo a ricordare la funzione che rivestivano (“Check point”, “Il bunker”, “Ossario”), diventano meravigliosamente anonime. Misteriose sì, ma non più minacciose”

Il lavoro di Delogu sull’Asinara è una ricerca identitaria di un luogo simbolico, scelto perché conosciuto dal fotografo per i racconti di un avvocato amico di famiglia, che difendeva Renato Curcio e Raffaele Cutolo, e per il suo lavoro fotografico fra i detenuti di Rebibbia. Un luogo che, nonostante un presente di libertà resta sospeso fra antiche e nuove contraddizioni: sacrario della memoria, luogo di ascolto e di riflessione consapevole e meta estiva di una giornata spensierata, consumata con leggerezza dai turisti del “tutto compreso”.

Enrico Pinna

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