Gli Atlanti di Ligios alla ricerca dell’identità. La mostra a Sa Illetta

Approda finalmente a Cagliari il progetto “Gli Atlanti. Tracce di identità” di Salvatore e Vincenzo Ligios. Il 27 febbraio, negli spazi di Tiscali a Sa Illesa, con la mostra fotografica e l’installazione di 50 monitor con videointerviste ai sindaci di cinquanta piccole comunità sarde viene presentato, introdotto dal convegno “Dalla cultura alla politica”, l’ultimo capitolo della ricerca dell’identità portata avanti da anni dal fotografo di Villanova Monteleone. La mostra, curata da Sonia Borsato resterà aperta sino al 27 marzo. Il catalogo con allegato DVD è edito da Soter Editrice.

A partire dal 1999, con “Facce di sardi. Ritratti d’identità” Salvatore Ligios  ha iniziato un percorso fotografico alla ricerca di un nuovo immaginario visivo dell’identità sarda che fosse lontano dagli stereotipi usati ma contribuisse a ridefinire, in tempi moderni, il concetto di appartenenza identitaria a culture e tradizioni storiche che, fatalmente, sbiadiscono col tempo.

«Con Facce di sardi — scrive Ligios — ho tentato di isolare la categoria “privilegiata” degli intellettuali e sui loro volti ho voluto testare la capacità di raccontare la contemporaneità dell’identità. Ho poi ripetuto questo esperimento con operazioni apparentemente più leggere come The Villasor Factory, dove mi confrontavo con un simbolo che pare certo dell’immaginario sardo come la maschera tradizionale ma che, attraverso la fotografia, rivela tutta la sua ambiguità, il suo essere inafferrabile al di fuori di un recinto di conoscenze precise.».

Fra i modelli di riferimento di Ligios c’è, dichiaratamente, August Sander con il suo gigantesco lavoro di indagine che è diventato un raffinato catalogo della società tedesca a cavallo fra le due guerre. Un catalogo che, individuando con precisione la classe sociale di appartenenza (al tempo rigidamente definita) passa, mediata dalla fotografia, attraverso un preciso, ricco e gerarchico codice di significati che caratterizzano con rigore l’identità sociale del soggetto e il suo universo culturale.

Ma i tempi sono cambiati e la società odierna è un agglomerato “liquido” globalizzato e contradditorio, non più diviso per classi o caste ma mobile e difficilmente sintetizzabile. La perfetta esemplificazione della difficoltà di compilazione di nuovi “cataloghi” sociali ce la dà lo stesso Ligios in una foto esposta in una piccola e deliziosa mostra di qualche anno fa: L’erba di Neoneli. Qui un cinquantenne abitante la piccola comunità sarda, non mostra nessuno dei segni esteriori di “sardità” che ti aspetteresti. Con la sua maglietta di Patti Smith, jeans e scarpe da ginnastica potrebbe abitare a  Londra o a New York o in qualunque altra parte del mondo.

E Ligios ha ben presente il bisogno di nuovi approcci ad un tema in rapida trasformazione. Molto opportunamente sottotitola il suo progetto “Tracce di identità” e decide di svilupparlo con strumenti di indagine multimediali. Così la sua visione squisitamente fotografica trova nuovi registri espressivi nei filmati del figlio Vincenzo, videomaker e regista, in una ricerca allargata di nuovi e più labili segnali di appartenenza sociale e culturale.

Ligios cerca queste tracce in quei luoghi marginali della carta geografica, quelle piccole comunità, isole nell’isola, a vocazione prevalentemente agro-pastorale, spesso popolate da una maggioranza di anziani, dove è più facile accontentarsi di guardare il mondo che cambia senza esserne protagonisti. I loro sindaci, amministratori appartenenti alle terre di confine più isolate della politica, sono i testimoni che posano e parlano, davanti alla telecamera, di problemi quotidiani, di identità e di cambiamento. Consapevoli, come dichiara Antonio Giuseppe Sechi, sindaco di Bessude che «Più si va avanti e più si parla di un mondo di globalizzazione, cioè quello dove noi e le nostre realtà iniziamo a scomparire.»

Il fotografo presenta un campione vasto che va dal giovanissimo sindaco di Asuni con la sua mountain bike a quella di Setzu con la sua bimba in braccio. «Questi sindaci — scrive l’antropologo Giulio Angioni nella presentazione — specie se giovani, così nuovi e così antichi, sono gli eredi più diretti di un modo di vivere infranto e sostituito».

Con la sinergia fra i media Ligios cerca di estrarre con nettezza i segni di un’appartenenza a tratti incerta e le direttrici di un cambiamento che è comunque palpabile. All’eccellente catalogo fotografico fa da contrappunto l’immagine in movimento, con le parole dei protagonisti, le mute inquadrature dei luoghi, il sonoro per tracciare un quadro più definito di un’identità culturale e geografica in itinere, che cambia sotto i colpi di una globalizzazione che si accanisce proprio con le comunità più deboli. Pretendendo che siano arcigni custodi della tradizione più genuina e, al contempo, privandole  — nel nome di subdoli neologismi come “ristrutturazione” ”rimodulazione”, ’”ottimizzazione” — di servizi essenziali come la scuola, l’ufficio postale, lo sportello bancario, il piccolo ospedale.

E il progetto completo, con la galleria fotografica ben supportata dal video e dagli interventi autorevoli di Martino Demuro (Presidente di Vigne Surrau partner dell’iniziativa ed ex sindaco di Arzachena) Sonia Borsato, Giulio Angioni e Pietro Soddu, riesce a rappresentare con ricchezza di visione le molte facce di un tema complesso. Volti, parole, luoghi, ricordi, storie di partenze e di ritorni tracciano una via per ritrovare quel filo conduttore di comune appartenenza oggi facile da smarrire e da confondere. E il bianco e nero nitido ed affilato di Ligios riesce a dare, con pochi ed essenziali tratti, un volto e una chiave di lettura e di sintesi efficace.

Questi sindaci, giovani o anziani, lasciati soli ad inventarsi il futuro e accomunati dalla istintiva ritrosia ad apparire sono portatori della cultura antica del lavoro. Impegnati quotidianamente ad amministrare problemi e a cucire relazioni sociali di comunità che sono base ed essenza dell’identità e dell’appartenenza. E sono ancora soli nel momento di gestire i problemi sociali di comunità piccole e quindi ancor più fragili. Soli quando si tratta di cercare la via mediana fra l’istintivo chiudersi al mondo per rifugiarsi nel passato e i bisogni di modernità, troppo spesso confusa con stili e modelli di omologazione a culture globalizzate dall’identità incerta e straniante.

Enrico Pinna

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