Fotografia/industria a Bologna: la fotografia al lavoro fra etica ed estetica

Il paese di Bengodi del Boccaccio era il luogo dell’abbondanza, dove le vigne si legavano con le salsicce e le montagne erano di parmigiano grattugiato. Il Bengodi dei fotografi è oggi a Bologna dove è in corso la terza BIENNALE di fotografia dell’INDUSTRIA e del lavoro organizzata dalla fondazione MAST. Una montagna di mostre e di eventi che si protrarranno sino alla chiusura prevista per il 19 novembre. Questa nuova edizione è dedicata a “etica ed estetica” riferita naturalmente alla fotografia industriale. Il lavoro dell’uomo catturato con una macchina che da meccanica si fa sempre di più elettronica (ma pur sempre strumento automatico) con cui i fotografi guardano il mondo delle macchine, per declinare visioni a volte ben distanti dalle patinate celebrazioni di tecnologica efficienza. Mondi di illusioni perdute, di occasioni mancate, di sfruttamento dell’uomo sull’uomo di cui le macchine sono spesso freddo ed efficiente strumento.

La simbolica porta di ingresso è la nuova installazione dell’artista anglo-indiano Anish Kapoor, arco d’acciaio, lucidissimo specchi riflettente e deformante. Proprio come la fotografia. Da qui si snoda un percorso di 14 mostre (tutte gratuite) disseminate nei luoghi storici della città, accompagnate da un lussuoso e prezioso catalogo e da uno straordinario calendario di eventi che si susseguono senza tregua.

François Hebel, direttore artistico di Foto/Industria ha preparato un menù molto appetitoso e coerente presentando fotografi prestigiosi, a partire da Josef Koudelka che, con le sue più affascinanti foto di desolati paesaggi post-industriali scattate negli anni ’80, fissa un momento di ripensamento rispetto a quella trionfale sbornia di progresso che incantò anche il costruttivista Alexander Rodchenko, sostenitore di una modernità senza limiti che sembrava portare con sé le promesse di una società migliore attraverso le conquiste tecnologiche.

La serie documentaria American Power di Mitch Epstein esposta insieme a “The making ok Linch” amplia la tematica di Koudelka e indaga gli effetti esercitati dall’industrializzazione americana del secolo scorso. La mostra analizza come due fotografi, a distanza di cento anni l’uno dall’altro, hanno documentato lo sfruttamento delle risorse energetiche e le relative trasformazioni subite dal paesaggio americano. Le origini e la fine del mito industriale basato sul consumo del territorio. Le foto compiaciute di un sogno industriale in costruzione nella città di Linch hanno un epilogo a Cheshire, città irrimediabilmente inquinata dalla American Electric Power Company che, per non pagare i costi di una bonifica impossibile, acquista tutta la città, demolisce le case e trasferisce gli abitanti.

Poi gli uomini al lavoro che Lee Friedlander ha ripreso negli anni ‘80 in situazioni diverse: uffici, fabbriche, sedi di servizi e il continuum in una versione più moderna e spregiudicata di sfruttamento legalizzato, quello descritto da Michele Borzoni con un ambizioso progetto documentario che intende tracciare un quadro dell’attuale panorama del lavoro in Italia alla luce della recente recessione economica globale. Prevale l’insicurezza del posto di lavoro, il deterioramento del tradizionale settore manifatturiero a beneficio dei cosiddetti “servizi” che hanno le fattezze di call center per lavoratori vuoto a perdere. In mezzo a queste due epoche il lavoro illegale ancora ben presente e simboleggiato dai piccoli venditori di sigarette di contrabbando nella Napoli degli anni ’70 fotografata da un inedito Mimmo Jodice in versione militante.

Fra gli altri contributi mi piace segnalare quello di Joan Fontcuberta che ha ricostruito uno dei casi più sorprendenti nella storia dell’esplorazione spaziale. Il 25 ottobre del 1968 il cosmonauta imbarcato sulla navicella Soyuz 2 scomparve durante una missione. Secondo la versione ufficiale diffusa all’epoca, il Soyuz 2 era un’astronave completamente automatizzata, senza equipaggio a bordo. Gli archivi vennero manomessi e la storia fu riscritta per oscure “ragioni di stato”, finché i documenti non vennero finalmente desecretati, permettendo la ricostruzione di uno straordinario capitolo della storia che oggi ci appare assolutamente incredibile. Seguendo questo link potrete approfondire tutti i lavori in mostra.

Ma perché vi parlo con tanta dovizia di una mostra lontana? Per due motivi: il primo è che mi piacerebbe vedere anche da noi una Biennale dove appendono le foto con le salsicce e le montagne sono fatte di fotografie. Ma mi rendo conto che ci vogliono tanti soldi e imprenditori illuminati e coraggiosi come Isabella Seràgnoli, fondatrice e finanziatrice del MAST . Ma tanto sognare (per ora) non costa nulla.

Il secondo è che non sono sicuro che questa mostra sia così distante dalla Sardegna. Il nostro cammino di popolo è molto somigliante al percorso visuale della Biennale. C’è stato anche da noi l’inizio e la fine, ci sono stati entusiasmi, Illusioni, utopie di rinascita, contraddizioni, desolazione e rabbia. Con lo sfruttamento del territorio che non si ferma, in uno slow motion senza fine di cui Furtei e Fluorsid sono solo i fotogrammi più recenti.  Avremmo anche noi tanto materiale fotografico da portare come contributo visuale di una storia dove le guardie si sono mescolate con i ladri, dove lavoro non fa più rima con decoro, dove invece sempre più spesso la parola “civile convivenza” fa rima con complicità e connivenza.

Enrico Pinna 

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