Sei anni di selfie per raccontare una vita

Secondo l’Oxford Dictionaries “Selfie” è il termine dell’anno 2013. Il software dell’Istituto certifica che il suo uso è cresciuto del 17mila per cento nell’ultimo anno, diventando la prima parola inglese tra le oltre 150 milioni monitorate ogni mese sul web.

Il selfie è, secondo la definizione del prestigioso Istituto, la fotografia fatta a se stessi, solitamente scattata con uno smartphone o una webcam e poi condivisa sui social network

Un tempo si chiamava autoscatto ma ora, con l’uso dei moderni dispositivi, non è più necessaria la classica corsa per prendere posizione davanti ala macchina e sorridere prima dello scatto. Oggi basta rivolgere verso di sé lo smartphone e il gioco è fatto.

Ora tutti fanno il selfie, Basta sfogliare la pagina di un qualsiasi social network. Momenti comuni, viaggi, perfino pericolose foto di sé al volante. Anche tanti personaggi famosi hanno ceduto a questa moda inarrestabile. compresi gli immancabili politici astutamente attenti ad ogni venticello di nuovo che può farli apparire “cool”. Perfino il Papa ha rotto il sacro e secolare protocollo cedendo alle profane insistenze dei giovani fedeli.

Cliccate selfie su Google e troverete di tutto: adolescenti (semi)nude in atteggiamenti improbabilmente sensuali e provocanti, culturisti dalla faccia cattiva, gruppi apparentemente felici e sorridenti, idioti che fanno gli spiritosi. In questa pratica vagamente narcisistica vengono naturalmente cooptati gli animali domestici: cani e gatti che in genere, a differenza dei padroni, conservano un dignitoso ed inconsapevole distacco.

Ma come solito la fotografia ha molte facce e infinite declinazioni. E qualcuno trova modi intelligenti per associare questa pratica normalmente futile ad un racconto terribilmente serio. Rebecca Brown giovane oggi 22enne racconta con lo smartphone la quotidianità della sua malattia mentale: sei anni e mezzo di selfie, uno al giorno, quasi un diario per raccontare emozioni, frustrazioni, tristezza, gioia, disperazione, solitudine. Insomma, la sua vita.

Depressione, pulsioni suicide, trichotillomania. “Un disturbo che mi porta a strapparmi i capelli ciocca per ciocca”. Nel video, pubblicato su Youtube, conclude l’emozionante timelapse con queste parole: “Preferisco guardarmi indietro e vedere un progetto fatto di onestà, piuttosto che di 2000 scatti di falsi sorrisi. La bellezza è più di quello che vediamo con gli occhi e le persone sono molto più delle condizioni che vivono. Io sono di più dei miei capelli o della mia pelle”. E confessa: “Ci sono giorni, però, in cui faccio fatica a scattare foto”.

Un fotoracconto che segue il solco tracciato da Jo Spence, fotografa inglese morta nel 1992 che documentò, con scatti crudi e scoccanti, la sua battaglia contro il tumore. Una narrazione che usa i moderni strumenti con cui si racconta la banalità per assoggettarli ad un progetto serio, lucido e profondo, mutuato da un dolore che riesce a renderlo coinvolgente e convincente.

Raccontare la sofferenza con la fotografia non è facile, soprattutto se si tratta della propria. Quando lo si fa per davvero il “selfie” diventa una cosa ben più seria che mi piace definire con un termine meno “cool” e più nostrano, forse anche un po’ snob e fuori moda: Autorappresentazione.

E mi vengono anche in mente le parole di Man Ray: “Non si chiede mai a un pittore quali pennelli usa o a uno scrittore che macchina per scrivere usa […]. Quel che conta è l’idea non la macchina fotografica”.

Enrico Pinna

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