Un bambino, una caramella. E l’orrore di Gaza

Era un bambino. Ora è un angelo. Avrà avuto si e no 7 anni. Nato e vissuto in mezzo alla guerra, ha giocato in mezzo alla guerra, con l’odore di guerra, col terrore della guerra. Chissà se avrà visto morire anche il bambino di questa foto, con ancora una moneta stretta in mano; “voleva solo comprare caramelle come tutti i bambini del mondo”, scrive dal suo diario di guerra Sulaiman Hijazi, palestinese di Hebron, ex portavoce a Cagliari della comunità musulmana.

Sette anni. Aveva appena registrato in un video il suo grido di dolore al mondo. Dopo 45 minuti è stato assassinato: un missile, nella sua scuola. Un missile, in una scuola. Un missile, in mezzo ai bambini. Uno di quei bambini che la mattina si alzano a Gaza, in mezzo al terrore, con la sola gioia di poter stringere in mano una caramella. Ma a Gaza anche le caramelle hanno il sapore acre del sangue.

“Per quanto tempo ancora dovrò sopportare questa vita? Io desidero con tutto il cuore amare, vivere, giocare, essere uguale a tanti altri bambini al mondo”. Avrà pensato questo, prima di lasciarsi andare a quell’ultimo sospiro in questa vita terrena. Tutto ciò che quel bambino “…ha sentito, provato, contemplato sparisce con lui, proprio come le lacrime si stemperano nella pioggia”.
“…desidero essere uguale a tanti altri bambini al mondo”, come quelli britannici ad esempio; di quella Gran Bretagna alla quale, alla fine della prima guerra mondiale, e dopo la caduta dell’impero ottomano, è stato affidato il compito di amministrare i territori palestinesi; è in questa fase, a parer mio, che andrebbe individuato storicamente il momento più critico e delicato che ha portato la situazione a complicarsi ulteriormente con gravi responsabilità dei britannici: il punto critico si raggiunse con i moti del 1929, quando centinaia di sionisti marciarono sul Muro del pianto rivendicando il controllo di Gerusalemme, scatenando la risposta araba.

Nel 1948 la Gran Bretagna si ritira, lasciando il paese in balia del caos e dei gruppi paramilitari. Tra il 14 e il 15 maggio 1948, i sionisti proclamano l’indipendenza dello “Stato ebraico in terra di Israele”. Poi certo, c’è un prima e un dopo nella storia di questo conflitto di lacrime e sangue. Ma noi parliamo di diritti civili e di bambini. E quando accosti bambini a lacrime e sangue, capisci che di civile non c’è nulla in questi “diritti”.
A Cagliari, mentre scrivo, sono circa le 13.30 di domenica 27 luglio. In Palestina, da un’ora, è cominciata la tregua. Fuori soffia un vento forte, via via più caldo col passare delle ore. Scorro il diario di Sulaiman, scorro altre foto e imparo a distinguere immagini finte e vere e mi rendo conto che la realtà è ben oltre l’ immaginazione: una delle peggiori carneficine dal dopoguerra ad oggi. E odi voci nel vento, voci per mare e da terre lontane, voci di dolore nell’aria e “nell’aria grigia e morta senti onde di lamenti”.
Sono sconvolto, distrutto, triste oltre quello che avrei potuto immaginare. Provi quel dolore al cuore fino a scoppiare in un pianto d’ impotenza.

Chi ha ragione tra Israele e Palestina? Non lo so. Fa bene Israele a reagire in questo modo ogni volta che i razzi di Hamas piovono sulle sue terre? Certamente no. Quello che è certo è che la disparità di forze tra Israele e Hamas è schiacciante, almeno che non si voglia pensare stalinisticamente che “una singola morte sia una tragedia, e un milione di morti una statistica”.

I numeri dell’ultimo conflitto, al 25 luglio: 700 palestinesi morti (di cui circa 130 bambini), 30 israeliani morti, di cui 2 civili. La sensazione è sempre che Israele utilizzi il bazooka contro il moscerino. Tutto ciò non farà altro che rinfocolare l’odio contro Israele e quando si è disperati e non rimane più nulla ci si stringe attorno ai valori che si sentono più forti e ci si unisce contro il nemico e la rabbia e l’odio verso gli ebrei di Israele salgono.

Avrei voluto essere lì, accanto a quel bambino, prendere delicatamente quella moneta dalla mano, e metterci una caramella; una di quelle gommose con tanto zucchero attorno, che si masticano più facilmente; poi abbracciarlo, stringerlo forte al petto e, come brezza leggera che accarezza l’animo gentile di un bimbo, sussurrargli all’orecchio: “E’ solo un tuono, tesoro, è solo un tuono…”.
E invece sono a Cagliari e soffia ancora il vento “…ma è  solo un’eco nel vento, nel vento che mi risponde, venga la pace dal mare lontano, venga il silenzio dalle onde”… con tanto zucchero attorno.

Gianluigi Piras

 

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