Referendum costituzionale. Torniamo allo Statuto (Speciale). E votiamo sì

Da Francesco Sanna, deputato del Partito democratico e membro della Commissione Affari costituzionali e presidente della Commissione paritetica Stato-Regione per la riforma dello Statuto speciale, riceviamo e pubblichiamo questo intervento sul referendum sulla riforma costituzionale. 

Nella discussione sulla riforma costituzionale vi sono molte opinioni e qualche superstizione. Una di queste – si aggira quasi solo in Sardegna –  è che la modifica della Carta cancella le regioni speciali. O quantomeno le rende più deboli o vulnerabili a futuri attacchi.

La superstizione è sfatata dall’accusa opposta, mossa soprattutto dal fronte del No al referendum, per la quale uno dei massimi difetti della riforma è aver rafforzato le autonomie speciali. Trasformate in “super-Stati”, come scrive il costituzionalista Michele Ainis su Repubblica, e ripete D’Alema da Mentana. Proteggendo gli Statuti speciali da ogni modifica che le stesse regioni non vogliano accettare. Domani ridurre una competenza legislativa regionale della Sardegna o del Trentino sarà più difficile che modificare la Costituzione stessa.

Al di là dello stile iperbolico con cui afferma il concetto, ha ragione Ainis. Oggi gli statuti speciali, che disegnano i poteri delle cinque regioni autonome, possono essere modificati dal Parlamento, con legge costituzionale, anche senza il consenso dei Consigli regionali interessati. Certo, in Sardegna il Presidente della Regione può anche indire un referendum consultivo. Ci sono i pareri delle assemblee. Ma se in Parlamento si forma una maggioranza capace di approvare una legge costituzionale (con voto finale favorevole della metà più uno dei membri che compongono ogni Camera), si può andare avanti senza rispettare né l’esito della consultazione popolare, né i pareri.

Invece, se al referendum prevarrà il Si, ogni modifica degli statuti potrà essere approvata solo sulla base di un’intesa con la regione. Nel mentre, la parte della riforma che riguarda le competenze legislative delle regioni ordinarie non si applicherà alle regioni speciali sino alla revisione degli statuti. Non si applicherà alle speciali nemmeno la cosiddetta clausola di supremazia, per la quale domani il Parlamento (quindi con il voto decisivo del Senato delle regioni e delle autonomie locali) potrà intervenire su materie regionali. Tutto ciò è scritto a chiare lettere nell’articolo 39, comma 13 della riforma. Questo assetto delle autonomie speciali non è stato un grazioso regalo, bensì il frutto di una battaglia dei parlamentari delle regioni speciali, affermatasi nel corso delle quattro letture di Camera e Sanato via via che il testo si precisava.

Si dice: è una norma transitoria. Vale sino alla revisione degli statuti (revisione, sta scritto, non adeguamento). Ma è transitoria, e ancora vale, anche la disposizione che nel 2001 ha attribuito in automatico alle regioni speciali, senza alcuna negoziazione di ciascuna di esse con lo Stato, tutte le nuove competenze delle regioni ordinarie. E per quindici anni la Sardegna ha goduto di questo ampliamento dei suoi poteri. A proposito: se si approva la riforma, le competenze legislative delle regioni ordinarie a metà con lo Stato, nelle cosiddette materie concorrenti, rimangono in capo alle regioni speciali. Inoltre i nuovi statuti potranno anche confermare l’attuale assetto “provvisorio” delle competenze, o aggiornarlo secondo logiche e interessi più attuali. Queste future modifiche potranno, come accade sin dal 1948, derogare le norme costituzionali valide per il resto d’Italia.

Quindi a casa tutti bene ? Niente affatto.

Vi è stato il tentativo esplicito di abrogare gli statuti speciali. Esso è stato respinto, nei lavori parlamentari, dai voti decisivi del Partito Democratico. Il clima politico nei confronti delle regioni autonome, per motivi diversi, è molto negativo, sopratutto da parte delle regioni ordinarie (e massimamente da quelle confinanti), che vedono soprattutto la parte finanziaria della specialità come un privilegio fuori dal tempo.

In Sardegna, il tema di un nuovo Statuto (cioè di una sua riforma complessiva) sembra essere scomparso dalla agenda politica, soppiantato dalla vertenza entrate sul versante degli attori istituzionali. A chi guarda all’indipendenza dell’Isola invece, la “fase intermedia” di una nuova autonomia sembra interessare poco.

Un’ indifferenza, non teorizzata ma di fatto, che  accomuna le forze politiche e il mondo della cultura e dell’economia della Sardegna, e rivela sia l’esaurirsi di uno spirito riformista concreto e innovatore, sia la forza inerziale e frenante dello status quo. In mancanza di una forte spinta popolare, le elites negative, quelle che con obiettivi anche diversi si coalizzano nel “no” alle pur necessarie riforme istituzionali, se vincono producono la pura conservazione. Una conservazione che non può tuttavia essere considerata rassicurante, perché non è preordinata al meglio, ma semplicemente al rinvio dei tempi.

Lo dimostra il precedente della legge di governo della Sardegna, la cosiddetta legge statutaria, prevista dalla riforma costituzionale del 2001. Nuovi e più moderni rapporti tra Giunta e Consiglio, maggiori poteri di indirizzo sull’esecutivo e di controllo sulle nomine, incompatibilità tra consiglieri ed assessori, referendum propositivo, modulazione flessibile e riduzione del numero degli assessori, disciplina del conflitto di interesse: temi attesi e sviluppati nella legge 7 marzo 2007, che avrebbero fatto della Sardegna la regione più innovativa e moderna quanto ad  architettura istituzionale e sviluppo degli strumenti della democrazia diretta.

In sinistra analogia con la riforma costituzionale di oggi, anche allora una parte di coloro che votarono la legge statutaria in Consiglio Regionale chiesero il referendum confermativo e si schierarono contro il testo che pure avevano concorso a scrivere e approvare.

Il referendum respinse la legge statutaria. Da ormai quindici anni lo statuto sardo prevede una nuova “legge di governo”, ma passato quel ciclo politico riformista di circa dieci anni or sono, ogni iniziativa si è bloccata. La struttura della Giunta Regionale, ad esempio, è ferma nel numero degli assessori e nella definizione delle loro competenze alla legge regionale che la regola, decisa quaranta anni or sono: in un altro mondo, più che in un’altra epoca. Ha fatto più velocemente il parlamento nazionale a cambiare la norma dello statuto che stabilisce la composizione del Consiglio Regionale, che il medesimo Consiglio  – il quale pure per un migliore equilibrio dei poteri ne avrebbe tutto l’interesse – a riformare la Giunta. La quale attualmente vanta un numero di assessori pari ad un quinto dei consiglieri regionali.  Giocando a trasferire queste proporzioni sulla scala nazionale, è come se il Governo si componesse, in rapporto all’attuale numero dei parlamentari, di 189 persone (sono invece poco più di sessanta, sottosegretari compresi).

Approvata o no la riforma costituzionale, sarebbe di grandissima utilità avere un luogo deputato alla elaborazione della proposta sarda di un nuovo patto con lo Stato, che coinvolga personalità rappresentative della cultura, della politica e dell’economia, dove si vada oltre la dialettica maggioranza/opposizione al governo regionale. E anche recuperando alla dialettica democratica le espressioni politiche che non hanno trovato rappresentanza in Consiglio Regionale nelle ultime elezioni.

In Trentino, da alcuni mesi sono all’opera due organismi di questo tipo.

Una volta tanto, i sardi c’erano arrivati prima. Dieci anni fa una legge previde l’istituzione di una Consulta statutaria che aveva questo compito. Essa tuttavia non fu mai costituita, per la miopia politica ed il tatticismo di piccolo cabotaggio della opposizione di centrodestra di allora, che decise di non parteciparvi per non dar soddisfazione a chi l’aveva proposta.

La sua attivazione immediata tornerebbe utile alla Sardegna.

Francesco Sanna

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