Il dibattito sul sardo. Quante lingue nell’Isola? “Lo decida la politica”

Da Roberto Carta, militante del “Coordinamentu pro su Sardu Ufìtziale”, riceviamo e pubblichiamo.

Che le lancette dell’orologio del cambiamento linguistico siano in movimento non è certo una novità. L’Assessora Claudia Firino ha passato diverse settimane sentendosi attaccata dalle dichiarazioni sempre più pressanti del Coordinamentu pro su Sardu Ufìtziale, dagli articoli di un ben noto quotidiano regionale, dalle proteste degli editori che orbitano nel campo de sa limba, dal tam tam mediatico popolare venuto fuori dai social network.

In realtà la questione «minoranza linguistica» non riguarda solo i sardi:  il numero delle lingue parlate in Europa, oltre a quelle ufficiali, è pari a 60. Il 10% degli europei usa una lingua “minore”. Solo in Italia ne contiamo 12. Al Consiglio d’Europa (con l’approvazione della ”Carta europea per le lingue regionali e minoritarie”) e alla Commissione Europea, il merito di aver predisposto strumenti finanziari di sostegno per l’insegnamento nelle scuole, l’uso nel settore pubblico e nei media locali. L’oggetto di cui si discute, dunque, non è un’invenzione della Regione Sardegna ma una questione più complessa: sarda, italiana e europea insieme.

L’Italia si è distinta per la solita ipocrisia: ha adottato una propria legge in materia, la L. 482/1999, ma non ha mai ratificato la ”Carta europea”, nel frattempo entrata in vigore in 25 stati europei. Comunque, grazie allo sdoganamento favorito dal Servizio Lingua Sarda regionale, alle nuove tecnologie e ai social network, la circolazione scritta de sa limba è aumentata, di fatto il sardo ambisce a essere una normale lingua di comunicazione. “Normale”, la vena polemica sgorga proprio sul crinale di questo significato: l’operazione del ricondurre alla norma, alla normalità una situazione.

In Sardegna si è discusso tanto di corpus, di come normalizzare oppure non normalizzare la lingua sarda. Se è vero che la maggior parte degli osservatori sono d’accordo sul fatto che sia necessario fissare una norma linguistica, adottare un sistema di scrittura, stabilire ed elaborare un’ortografia, una grammatica o un dizionario normativo, pensare elaborazioni terminologiche e stilistiche, destinate a generare i termini e i ricorsi fraseologici e di registro necessari per sviluppare le attività tecniche, scientifiche, letterarie, non tutti sono però d’accordo sull’applicazione di quanto appena scritto a un’unica lingua sarda. Secondo alcuni, infatti, il modus operandi può essere questo ma a patto di individuare due “normalizzazioni”: una per il cosiddetto campidanese e una per il cosiddetto logudorese. In seno a questa contesa si sviluppano anche i problemi inerenti lo status della lingua: l’ufficialità di una varietà (ad esempio la Limba Sarda Comuna, anche se solo nell’uso scritto) e la promozione dell’uso di quella varietà oltre che l’insegnamento. Vi sono infine altri osservatori, ormai in netta minoranza e poco ospitati dal dibattito pubblico, portatori di idee comuni e diffuse negli anni settanta, i quali non vorrebbero alcuna normalizzazione linguistica ma 377 varianti/dialetti.

In questo momento, dunque, la questione vera riguarda quale magistero linguistico ha intenzione di favorire la Giunta regionale. Il figlio di Antonio Pigliaru si adopererà per una lingua? Due lingue? 377? La scelta è evidentemente politica. Una lingua non è altro che una ‘famiglia’ di dialetti, le più fortunate vengono dotate di una scrittura codificata e unificante che è un elemento importante a distinguere una lingua legittimata da un insieme caotico di dialetti.

Entriamo nel cuore della Limba Sarda Comuna, si tratta di un artificio? La lingua è un prodotto della cultura e ha una propria grammatica della creazione, spesso artificiale, lingua italiana compresa. L’affermazione iniziale del volgare (XIII secolo) avviene con molte difficoltà. Da un lato si imponeva l’uso della lingua di tutti i giorni, dall’altro, essendo questa lingua divisa in tanti dialetti e scarsamente definita (guarda un po’!), c’era il rischio di creare una lingua sempre subalterna al latino. Di qui l’esigenza di trovare un compromesso. E fu così che nacque uno standard di volgare “nobilitato” e illustre, adatto a tutti, una lingua elevata alla dignità espressiva del latino.

Dopo secoli di discussione il Manzoni fu posto a capo di una commissione del Ministero della Pubblica Istruzione. Il primo risultato dei lavori fu la stesura di un Dizionario della lingua italiana, basato sulla parlata fiorentina colta. Nelle scuole si adottarono manuali antidialettali e per un certo tempo fu seguita la pratica del trasferire i maestri dalla propria regione d’origine in altra di dialetto diverso. E’ così che nasce l’italiano odierno, in modo artificiale e coatto. Ed è proprio paradossale che tra i più acerrimi nemici di una unica lingua sarda scritta vi siano alcuni dei più strenui difensori dell’italiano. Ancora più bizzarro che questi signori siano innamorati proprio del legame linguistico interregionale, cioè di quell’italiano che nei suoi tornanti scritti altro non è che una lingua davvero di plastica oppure, secondo le sue traiettorie orali, è la lingua generalista parlata dai media. Per intenderci, la pronuncia dei presentatori e dei conduttori televisivi è accettata su larga scala in tutto il Paese, anche se è evidente come questo idioma sia unanimemente considerato come asettico, freddo, impersonale. L’italiano scritto scolastico è «antiparlato» per definizione, in quanto i suoi termini sono molto lontani dal parlare quotidiano. Chiari contenuti di artificialità rimbalzano costantemente in ogni lingua, sia sul versante dello scritto che su quello orale e fonetico.

La Limba Sarda Comuna è una lingua che non esiste? Il professor Roberto Bolognesi è stato incaricato dalla Giunta regionale di svelare questo arcano. Con uno studio basato sulle più avanzate applicazioni della linguistica computazionale ha rilevato che parlare di un sardo campidanese e un sardo logudorese è un’astrazione, una classificazione convenzionale non provabile. La lingua cambia da paese in paese, gradualmente e lentamente, ma non per grandi varietà. La computazione linguistica di Bolognesi ha inoltre dimostrato che la Limba Sarda Comuna è risultata vicina alle varietà di Abbasanta (da cui si distanzia solo per il 9,97 per cento), e successivamente a Sedilo (11,35%), Ghilarza (11,50%), Atzara (11,95%). Di fatto si tratta di una lingua vera, presente, in una porzione di Sardegna ma comunque presente.

L’Assessora Claudia Firino, in una chiacchierata intervista concessa a Sardinia Post, auspicando uno stesso trattamento scolastico per la lingua sarda e per le lingue straniere, ha offerto un’idea in linea con il pensiero classico di certe élites, quello che rilancia pregiudizi e stereotipi sulla lingua sarda. Una limba istrangia in doma sua. Nella realtà più profonda, invece, la lingua sarda è il più importante e autentico prodotto culturale che il popolo sardo ha creato e forgiato in decine e decine di secoli, il nostro più importante contributo all’umanità. La lingua, amava dire Gramsci, neanche a dirlo originario proprio del Guilcier, viene considerata dalle classi dominanti più come uno strumento di politica culturale per la conservazione del potere che non come una risorsa da valorizzare. Insomma, considerare la questione della lingua come una questione di democrazia interna mancata non è peccato.

Nella questione lingua sarda non c’è una faida ma un confronto spigoloso. Anche Foscolo e Leopardi, mica due scemi, erano contrari all’idea dell’italiano standard di Manzoni. In realtà è proprio la mancanza di una linea della Regione che fa erroneamente pensare a una lotta tra le parti che lascia morti sul campo. Conviene a qualcuno questo? Di sicuro non alla lingua sarda. Può convenire alla stessa Regione per ritagliarsi il ruolo della colomba, dell’ambasciatore che porta pace tra le fazioni in lotta, per rallentare il corso del Movimento Linguistico, per discutere sempre delle stesse banalità allo scopo di mantenere lo status quo. In realtà ciò che avviene «fuori dal Palazzo regionale» è infinitamente più avanzato di ciò che accade «dentro». E’ uscendo «fuori dal Palazzo» che si ricade in un nuovo «dentro»: il penitenziario dell’abbandono scolastico che attanaglia la scuola sarda, il problema del dimensionamento scolastico che pervade e opprime il nostro territorio (una minoranza linguistica “seria” andrebbe in deroga alla legge).

Cosa vuole fare oggi il rottamatore Pigliaru? Vuole proporsi come rottamatore del vecchio producendo un pericoloso assunto: il diritto alla lingua sarda non è appartenuto neanche al passato, chi lo difende è un grezzo da rottamare, un’inutilità? In questo modo sarebbe lui (e la sua Giunta) ad essere reazionario, facendo appunto regredire la democrazia linguistica ai tempi del ti sbatto in Sardegna e del ti picchio se parli in sardo.
Prof. Pigliaru, mi smentisca. Porti avanti una campagna di sospensione della riluttanza. Magari è nelle sue corde. Passereste alla storia come delle élites nuove, diverse, sarde, europee, migliori di quelle italiane, fuori dall’ossessione mediamente consapevole di tipo «orientalista» e «postcoloniale». Il cambio di segretario del Pd sardo, sopratutto se arriva Soru, significa mutamento dello scenario. Soru sulla lingua si è espresso molto chiaramente pochi giorni fa. Lo ha fatto in ragione della pianificazione linguistica da lui avviata. Proprio sabato scorso ha incontrato Giuseppe Corongiu e il Coordinamentu pro su Sardu Ufìtziale per parlare del libro “Il Sardo una lingua normale” e di politica linguistica. A Sedilo, in uno dei comuni sardi la cui variante è vicinissima alla Lingua Sarda Comune. Nulla è per caso.
Esiste un’Europa dei popoli che ci aspetta, la chiave è sopratutto linguistica. Non cogliere l’importanza strategica e funzionale della pianificazione linguistica all’interno di un più ampio sistema di riforme vorrebbe dire confermarsi élites gattopardesche e avallare le sparate del Sergio Rizzo di turno quando dice «La Sardegna non merita l’autonomia speciale».

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